Le oscure acque di Genova (sguardo su Dino Campana)

Tutti mi hanno sputato addosso dall’età di 14 anni, spero che qualcheduno vorrà al fine infilarmi. Ma sappiate che non infilerete un sacco di pus, ma l’alchimista supremo che del dolore ha fatto sangue.*

Non farò, non ancora, il suo nome. Riapriamo il Nero spazio poetico avvolgendo di mistero un grande poeta, del quale desideriamo per ora indicare solo l’abisso, con l’aiuto dei suoi versi. Abbiamo vicoli bui, e donne sontuosamente grasse, dagli occhi bistrati dello stesso nero della notte salmastra di un porto non-qualunque. Indizi per il gioco cui voglio giocare: non serve una benda scura sugli occhi per seguire il nero del poeta, nei suoi versi oscuri e carichi di odori.
L’orizzonte sta sfumando e di fronte abbiamo un genio veggente e visionario. Di più: è la sua figura a sfumare all’orizzonte, i tratti del veggente e del visionario si fondono, e la realtà dell’immaginario e quella dell’esperienza scivolano, non sempre con delicatezza, l’una nell’altra.

Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo. Mi accompagnò per strade male odoranti dove le femmine cantavano nella caldura. Ai confini della campagna una porta incisa di colpi, guardata da una giovane femmina in veste rosa, pallida e grassa, la attrasse: entrai.**

La prima stesura dei Canti Orfici

Appare un mondo, e un disegno tratteggiato, di questo mondo. Ci appaiono oggetto e soggetto, il poeta e la sua ombra, ci appaiono nella luce accecante e perfida della calura. E sotto i piedi di noi che giochiamo ecco lo scarto, siamo costretti a spostare le mani per toccare il prossimo oggetto, perché, abbiate fede, saprete riconoscerlo: la luce esalta l’ombra e al tempo stesso la liquefa, e permette all’oggetto disossato di scivolare verso la porta e di farsi soggetto. Comincia il poeta, e la sua ombra si insinua, decide, agisce. Chi è l’uno, dove finisce l’altro? Sarebbe da chiedersi come mai sia possibile, ma in fondo, nel gioco delle parti, a noi sta quella di tenere gli occhi chiusi e di ascoltare.
Facciamo un passo indietro.
È l’alchimista supremo a rendere ogni cosa possibile. È il suo sguardo, curvato dall’intensità dell’esperienza di vita, a piegare la nostra stessa esperienza, a trasportarci laddove l’esistenza, l’esistenza poetica, si fa tanto esorbitante da sfondare anche le pareti della celletta del manicomio. Manicomio, e già, un’orrenda realtà che irrompe nella nostra storia per ricordare che, per i Grandi, non esiste confine tra la finzione artistica e la vita reale. Ora possiamo persino toccare la sagoma verso la quale ci stiamo dirigendo.
Le sue parole disegnano qualcosa che potrete afferrare solo se tenderete anche le mani, oltre che l’orecchio:

Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di luce sanguigna, poi l’ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall’ombra sotto un lampione s’imbianca un’ombra che ha le labbra tinte. O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall’ombra mostri l’infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria!***

Intrecci di lingua, meglio di lingue, pluralità armoniche nel magma di una poesia che è passata indenne attraverso l’accusa di non-poesia.
E ripete senza posa, il nostro veggente/visionario, poeta/prosatore, che sto giocando a svelarvi.
Sembra quasi che abbia in mano un martelletto, con i cui colpi batte sulla lingua, mentre noi, muti, cerchiamo di rendere in suono i versi. Si fa strada (la sentite?) nella musica un’insidiosa prosa poetica. E già tutti pronti a puntare il dito contro una poesia che non sarebbe poesia. L’accusa di non-poesia, come quella della follia, che incrina le regole della lingua, piegandola a necessità diverse, a sonorità interiori, a legami cui le cose rispondono quasi intimamente per misterica risonanza.

È feroce il tiranno dell’immaginazione. E non dà sollievo, quando il respiro della vita si assottiglia a tal punto da bruciare la carne dei polmoni.
Ascoltate ancora:

…e non un Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze.****

La sentite la violazione? Sentite come, quasi giocando lui con noi, ci lascia indietro e da parte, violando l’ordine sintattico, e l’ordine temporale?
La punteggiatura, poi. Sotto i suoi piedi, e sotto i nostri che lo inseguono, diventa un gradino, saltato il quale si entra in rapporti nuovi, in visioni altre, in nuovi contatti.
Scarta di lato, e noi affannosamente lo seguiamo: la struttura logica del discorso è lasciata un passo di fianco, e sensi ignoti – come germi – contaminano il lessico, attecchendo nell’immaginario del lettore. Germi che proliferano in una città di mare quando cala la notte, quando il nostro veggente/visionario, poeta/prosatore ci lascia intravedere la fine, sempreché troviamo il coraggio di smarrirci nei versi, ascoltandoli nel profondo, lasciandoci contaminare:

E nelle braccia di ferro
Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte
tirrena
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They were all torn
and cover’d with
the boy’s
blood *****

Il gioco è finito.
Il poeta innocente è stato alla fine assassinato, sbranato come Orfeo.
Lasciamo allora che un crudele fascio di luce squarci il nero di cui è fatto l’artista, e ci racconti l’angoscia oscura del calvario, dell’inimmaginabile attrito prodotto dall’insondata larghezza della visione con la realtà angusta della strada verso l’internamento psichiatrico.

Morì giovane, Dino Campana.
Dalla sconfinata vastità della sua lingua poetica a tutt’oggi ci lasciamo inghiottire, senza speranza e senza appiglio. Sommersi dalle acque scure della sua Genova.

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Di seguito due registrazioni video:

Una chimera (interpretazione di Carmelo Bene)
A una troia dagli occhi ferrigni (interpretazione di Carmelo Bene)

* D. Campana, Lettera a Papini, 1914, in Lettere di un povero diavolo. Carteggio (1903-1931).
** La Notte, in Canti Orfici, BUR, Milano, 2004, p. 86.
*** La giornata di un nevrastenico (Bologna), in Canti Orfici, pp. 174-175.
**** La notte, in Canti Orfici, p. 100.
Da notare il richiamo ai versi di Song of Myself, di W. Whitman, rielaborati da Campana in questo colophon che chiude i Canti Orfici.
***** Genova, in Canti Orfici, p. 234.

(Maria Carla Trapani)