Figlia, non dimenticarmi la morte: ricordami il sonno (Alejandra Pizarnik – memento)
«Non dimenticare di suicidarsi. O almeno trovare un modo per disfarsi dell’io. Un modo per non soffrire. Per non sentire. Per non sentire, soprattutto»(1).
Quasi un’equazione posta tra l’estinzione della sofferenza, del sentire, dell’io. Come se la sofferenza fosse il solo orizzonte sensoriale del soggetto; e, la morte, il solo punto di rottura del cerchio.
E quasi un memento.
Appena ventiseienne, Alejandra Pizarnik lo affida al suo diario privato, il 30 novembre del 1962. Passeranno dieci anni, prima che il ricordo si realizzi nell’atto definitivo; che irreversibilmente ti sbalza via dalla linea del tempo, dissolvendo la possibilità stessa di ogni ricordo.
In mezzo, un’opera poetica il cui centro critico è la polarità infanzia-morte, due sponde variamente declinate, come notte e come giorno, come silenzio e come parola.
Attraverserà i suoi anni, Alejandra, per non dimenticare, trasfigurando memento in poesia, spezzando cupio dissolvi in versi infestati di fantasmi, presagi e predizioni di morte.
la piccola viaggiatrice
moriva spiegando la sua morte
saggi animali nostalgici
visitavano il suo corpo caldo (2)
Un solo corpo, scisso tra due sponde, che attraversa specchi che sono porte.
Che c’è dall’altro lato del fiume? (3)
Servono specchi (4) per raggiungere la sponda. Il tragitto è spettrale e la mente della bimba, che abita la donna, contiene i due poli, dalle tenebre al sole, dalla mezzanotte al mezzogiorno, dall’infanzia alla morte.
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve. (5)
Quale morte?
Una morte poetica, che non si oppone alla vita, né alla nascita, ma all’infanzia.
Le forze del linguaggio sono le dame solitarie, desolate, che cantano attraverso la voce che odo lontano. E lontano, sulla sabbia nera, giace una bimba satura di musica ancestrale. Dove la morte autentica? Ho voluto illuminarmi della mia mancanza di luce. I rami muoiono nella memoria. La giacente si rintana in me con la sua maschera di lupa. Lei che non ne poté più e implorò fiamme e ardemmo. (6)
È l’oblio raggiunto tenendo fede al ricordo del proprio dovere: dissolvere la sofferenza negandosi come soggetto, sciogliendosi come fascio di sensazioni.
sull’altra sponda della notte
l’amore è possibile
– portami –
portami tra le dolci sostanze
che muoiono ogni giorno nella tua memoria (7)
Un oblio ricercato e sempre ricreato nella poesia, la sola dimensione in grado di indurre il sonno dei sensi rinnovando la vita, per giorni, per anni, finché dura la vita. Per quanto ossessionata dalla morte, la poesia, proprio perché induce la morte poetica, sospende la morte autentica.
La morte che Alejandra ricorda nella poesia è il canale che conduce di là dallo specchio. Va per questo prevista, predetta e presagita, la morte-notte, ma solo per scongiurare la morte, quella al di là del linguaggio, al di là dello specchio, al di là del tempo.
Delizia di perdersi nell’immagine presentita. Io mi lazia dal mio cadavere, andai in cerca di chi sono. Pellegrina di me stessa, sono andata verso quella che dorme in un paese al vento. (8)
Come epilogo della vita reale, la morte è in questo senso lo scacco e non lo sbocco della sua opera. Nella scrittura, la morte è fantasma interno al linguaggio; nella poesia, il suicidio è azione salvifica; è a questa morte, a questo suicidio, che Alejandra affida la il compito di tenere in vita. È nella morte come possibilità di silenzio – quindi come linguaggio – che c’è vita poetica: se la morte autentica può essere indefinitamente ricacciata di là dal fiume, è solo nominando la morte come notte, come spettro, come sogno a occhi aperti.
Quando alla casa del linguaggio vola via il tetto e le parole non guariscono, io parlo.
Le dame in rosso si smarriscono nelle loro maschere ma torneranno a singhiozzare tra i fiori.
Non è muta la morte. Odo il canto dei dolenti sigillare le fenditure del silenzio. Odo il pianto tuo dolcissimo far fiorire il mio silenzio grigio. (9)
Figlia dell’insonnia, per negarsi la vita, Alejandra sceglierà di scivolare nel sonno.
Ultimo gesto che spezza il filo del ricordo al quale aveva sospeso la sua età.
Quel giorno, non scelse la morte, ma la vita; un altro modo di dire la morte autentica.
Guarda il video:
Note:
1: A. Pizarnik, Diario, 30 novembre 1962
http://www.espritsnomades.com/sitelitterature/pizarnik/AlejandraPizarnik%20.pdf (traduzione mia).
2: Albero di Diana, in La figlia dell’insonnia, Crocetti, Milano, 2004, p. 45.
3:«Ed è sempre il giardino dei lillà dall’altro lato del fiume. Se l’anima domanda se è lontano le si risponderà: dall’altro lato del fiume, non questo, ma quello» (Riscatto, in Frammenti per dominare il silenzio, in op. cit., p. 77; la poesia porta la dedica a Octavio Paz).
4: nella notte / uno specchio per la piccola morta / uno specchio di ceneri (da Albero di Diana, in op. cit., p. 39).
5: Ivi, p. 33.
6: Frammenti per dominare il silenzio, in op. cit., p. 75.
7: L’oblio, in Le opere e le notti (1965), in op. cit., p. 55.
8: Estrazione della pietra di follia (1968), in op. cit., p. 87.
9: Frammenti per dominare il silenzio, in op. cit. p. 75.
(Maria Carla Trapani)