Questa terra sprofonderà… (voi non segnate il centro) – Medea
Dioscurias, 2137
Valle delle Sante senza Nome, sede della Casa delle Fanciulle.
Il giorno si sta disfacendo, sembra essere l’ora del crepuscolo: è l’ora in cui vengono impartiti gli antichi insegnamenti. Due figure, una di donna e l’altra di bambina, siedono sulla Pietra Centrale, il ricordo dell’Omphalòs perduto secoli e secoli e secoli prima.
Parla Lachynta, Maestra delle Antiche Storie:
Ci sono luoghi che non hanno tempo, e perdono lo spazio, semmai uno si possa dire che ne abbiano avuto.
Il racconto inizia lontano da qui, lontano da noi, in un tempo che gli uomini neppure più si tramandano, un tempo che solo alla nostra comunità è dato di poter ricordare: e tramandare.
Oggi dicono che sia il futuro.
In tanti lo hanno detto: e il nostro tempo si traduce in numeri che chi è venuto prima di noi neppure immaginava di poter pronunciare.
Oggi dicono che sia il futuro, ma la nostra comunità ricorda, ancora ricorda, Janina…
C’era un luogo lontano, oltre il mare, oltre le montagne. Un luogo in cui la terra parlava antica a coloro che ne chiedevano il consiglio. In quella terra viveva una donna il cui nome, bambina, è stato temuto, oscurato, calunniato.
Si chiamava Medea, quella donna.
Fu madre, maga, veggente, sacerdotessa, regina. E assassina, anche.
Di lei scrissero poeti il cui nome è stato cancellato dalle sabbie del tempo, ma noi custodiamo ancora quelle parole…
È noto a tutti in questa città che,
come barbara, venuta da una terra straniera,
sei molto esperta nei malefici. Sei diversa
da tutti noi: perciò non ti vogliamo tra noi.[1]
Straniera, barbara, dagli occhi tartarici.
Devota a divinità nascoste nel grembo oscuro della terra.
Questa era Medea, Janina.
Aveva due figli sai?
Due bei figli, concepiti con l’uomo che alla sua terra d’origine la strappò, portandola via, lontana, insieme al trofeo che avrebbe fatto di lui un re. E di lei una reietta e un’esule…
Praticava la magia, questa grande donna che attraversò il mare, una magia appartenuta alle antiche divinità che dimoravano dietro il mare, nelle terre del tramonto. Sapeva guardare lontano, coi suoi occhi lunghi e oscuri, ma non le bastò, la sua veggenza, a mettersi al riparo dalla cattiveria degli uomini.
…rivelando agli ignoranti nuove verità,
sembrerai un essere inutile e non un sapiente.
Se poi sarai ritenuto superiore a quelli
che sembrano sapere qualcosa di bello,
sarai di fastidio alla città. E io condivido
proprio questa sorte: e poiché sono sapiente,
per alcuni sono una persona odiosa,
per altri sono oziosa, per altri poi ho il carattere
opposto, per altri ancora sono una nemica.[2]
Noi che custodiamo la sua memoria, piccola, e che non abbiamo cancellato dalla pietra il suo nome, sappiamo cosa la spinse all’assassinio, cosa davvero significavano i suoi atti, misconosciuti dai più, e dai più rigettati nel baratro della follia e della malvagità dell’animo umano.
No, sotto terra, a trasformarsi non era un seme: ecco infatti
che nella terra affiorano delle membra umane sanguinanti.
Viene una grande processione, con canti liturgici, e simboli
della fecondità terrestre e del sole.
Dei giovani scavano: ed ecco sulla terra dove si intravedevano
delle membra umane, nasce un corpo intero, vivo.
Intorno si fanno grandi feste. Dei topi escono dai loro buchi:
trasformandosi anch’essi in uomini coperti di maschere,
(i morti) che si mettono a far festa con gli altri.[3]
I morti rinascono, bambina, e Medea questo ben lo sapeva.
I morti rinascono come il seme, come le membra gettate del giovane fratello Apsirto, a consacrare i campi, a dare vita al seme e a rinascere con il seme.
Nel mondo fuori dalla nostra Dioscurias nessuno ricorda più queste cose, nessuno rammenta più come gli antichi riti fossero officiati dalla Grande Sacerdotessa del popolo. E come la nostra vita si leghi ai cicli della terra, Madre e Tomba degli uomini.
Ma io te la voglio raccontare questa storia, ché essa venga tramandata di bocca in bocca, di lingua in lingua, a costruire il nuovo mito della nostra terra.
Là infatti ci sono due uomini: chiotti chiotti
(con l’ironia dei sogni, atrocemente ammiccanti)
essi stanno accingendosi a fare un sacrificio umano.
La vittima, nuda, distesa sulla terra dura, è senza volto.
Medea si rivolge supplice, disperata, agli uomini
chiedendo loro con gli occhi e coi gesti – come
una muta – qualcosa.
[…]
Medea continua a scavare, a scavare…Ma in quella
maledetta terra non ci riesce…la buca non accenna
a apparire…[4]
La terra di un luogo che non ci accetta, Janina, di un luogo che non ricorda più le antiche leggi, diventa dura e inattaccabile: rigetta le nostre radici. Stranieri, bambina, esuli, in una terra che non è morbida sotto le mani, in una terra che non accoglie più i corpi perché rinascano, ma li respinge, perché non ritornino mai più…
Ecco là gli uomini che ammazzano, tranquillamente
la loro vittima…Il sangue sgorga; il corpo sussulta
quasi gioiosamente. Medea si avvicina, incerta,
per prendere quel corpo. Ma gli uomini, feroci,
le fanno cenno di aspettare: ed essa, spaventata,
aspetta. Così i due, come macellai, squartano il cadavere,
smembrandolo in tanti pezzi…[5]
Eppure il sogno continua, il sogno della Maga di Colchide, ché Colchide si chiamava la sua terra d’origine. Colchide dalla terra morbida e accogliente, Colchide del barbarico sogno in cui il Passato è solo un sussurro dietro le nostre orecchie:
I due spaccano il costato della vittima, ne estraggono
il cuore e lo mangiano, bevendo anche del sangue,
con le mani a scodella.
Medea osserva diligente.
Raccoglie le membra sparse della vittima e ricomincia
a scavare, a scavare, la dolce, l’antica, l’obbediente terra:
e guarda il sole, la luna…[6]
So, mia piccola apprendista, che non è facile comprendere il senso di quel che ti sto narrando, ma la realtà delle cose spesso è mascherata, e le maschere danzano come i topi, che entrano ed escono dalle profondità della terra. Un grande saggio dei tempi andati diceva che la realtà è un mistero, e come tale va compreso, abbracciato, ché, se tentiamo di risolverlo al modo di un enigma, altro futuro non esiste per noi che quello che spettò in sorte ad Edipo…[7]
Abbraccialo dunque questo mistero, cara, e seguimi nel mio racconto:
Sono senza patria e senza casa, né
dispongo di un rifugio che mi attragga.
Commisi un grande errore, abbandonando
la dimora paterna. Non dovevo
porgere ascolto a un uomo che tra breve
se avrò con me gli Dei, pagherà il male
che egli ha fatto, come è giusto.
Egli non vedrà più vivi, fra poco,
i figli che gli sono nati…[8]
Ma ora tu sai, Janina, che la terra dà vita al seme e ciò che è stato sepolto rinasce come il seme…
Dette queste parole, con un sorriso segreto,
Medea si concentra nel vuoto. E vede compiersi
dei prodigi meravigliosi e rassicuranti
(la resurrezione dei corpi).
Un topo esce dalla sua tana, e, felice, comincia
a correre su e giù.
Un uomo getta un seme sulla terra, e il seme
dopo un po’, comincia a rispuntare sotto forma
di una pianticina: mettiamo uno stelo tenero di grano.
Medea sorride: ma è fuori da ogni ambiente. La sua testa è «ritagliata» nel nulla. Addirittura, mentre osserva, ci sarà il suo solo occhio enorme e isolato sullo schermo.[9]
[1] P. P. P., Medea, in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano, Garzanti, 1970, tratto da «visioni della Medea» di Pier Paolo Pasolini (trattamento), p. 103.
[2] Euripide, Medea, Milano, Mondadori, 1985, trad. di R. Cantarella, p. 23, vv. 298-305.
[3] Pasolini, op. cit., p.
[4] Ivi, p. 64.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, pp. 64-65.
[7] cfr. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972.
[8] Euripide, op. cit., p. 53, vv. 798-806.
[9] Pasolini, op. cit., pp. 68-69.
Guarda il video del primo episodio tratto dai versi raccontati
Guarda il video del secondo episodio tratto dai versi raccontati
(Maria Carla Trapani)