Incontro con Andrea Varano: quando un romanzo è scritto di getto
Nuovo appuntamento con la rubrica Il gatto a nove code. Stavolta all’altro lato della tastiera troviamo Andrea Varano, autore di Ali di china, romanzo vincitore della prima Black Window, la finestra di valutazione manoscritti indetta da Nero Press Edizioni, che viene aperta non più di una o due volte all’anno.
Ciao e benvenuto nella rubrica Il gatto a nove code.
Pronto? Cominciamo.
1. Il concepimento.
D: Come è nato Ali di china?
R: Dobbiamo tornare indietro nel tempo fino al 2006. Avevo trent’anni e stavo guardando un’opera del maestro Go Nagai. Non ricordo se fosse un Mazinger o un Getter Robot. Il pilota del mecha stava fronteggiando un terribile avversario e la tensione era così alta da risultare insopportabile per qualunque comune mortale. Per rappresentare il concetto, il disegno perdeva progressivamente i colori. Rimasto solo un contorno nero su sfondo bianco, l’intensità del bianco cresceva mentre le linee nere si contorcevano in un garbuglio sempre meno distinguibile, fino a diventare una massa informe che annegava nel candore ustionante della luce. Quell’immagine mi si impresse nella mente e cominciò a lavorarmi dentro. Di lì a poco scrissi quello che sarebbe diventato il primo capitolo di Ali di China, una paginetta abbondante nella quale una creatura abominevole prende il controllo di un uomo, trasformandone il corpo e sostituendosi alla sua volontà. Leggendo quel capitolo si ritrovano diverse suggestioni che derivano con chiarezza dalla sequenza animata. Sulle prime rimase solo un frammento, una scena e nulla di più. Ma un poco per volta mi nacque la voglia di approfondire, di sapere cosa succedeva a quell’uomo e se avrebbe ucciso ancora. Così tutto ebbe principio.
2. La scrittura.
D: In che modo sei arrivato a dare al romanzo la sua struttura definitiva?
R: Oh, buona domanda questa. Sappiamo tutti come si dovrebbe scrivere un romanzo, giusto? Mettere a fuoco il tema, organizzare il materiale narrativo, poi strutturare una scaletta, fare le schede dei personaggi e sviscerare le interazioni fra di essi, nonché le loro motivazioni. Solo per ultimo si comincia a scrivere.
Bene, niente di tutto ciò è stato fatto per la scrittura di Ali di China. Il motivo? A trent’anni ero ancora terribilmente indisciplinato, scrivevo di getto, una scena alla volta, buttandoci dentro tutto quello che mi passava per la mente e confidando nella mia capacità di aggiustare ogni cosa più avanti. Quanto mi sbagliavo. A metà della stesura avevo esaurito le idee. E dire che non è un tomo di cinquecento pagine. Stavo girando a vuoto, così mi dissi che per procedere mi serviva una meta. Mi chiesi come avrei voluto concludere il romanzo e per rispondermi scrissi gli ultimi due capitoli, creando di fatto un baratro fra la prima metà già stesa e quel remoto punto di arrivo. Avere una direzione rese infinitamente più semplice completare i capitoli intermedi. Sapevo una buona volta che ne sarebbe stato del protagonista senza nome, della sua compagna e anche del povero ispettore Panetta. Così scrissi e ne venne fuori qualcosa che si teneva insieme. Poi seguirono innumerevoli revisioni e infine… il cassetto. Perché Ali di China ha riposato come un mostro degli abissi sul fondo di un cassetto per oltre un decennio e, se non fosse stato per la Black Window di Nero Press, sarebbe ancora là a rimuginare sui propri peccati. Ma per sua fortuna ha incontrato le mani capaci di Laura Platamone che lo hanno rimesso in riga – con la mia complicità – e ne hanno tratto il romanzo che oggi si può leggere.
3. I personaggi.
D: Parlaci di come hai gestito i personaggi… o forse loro hanno gestito te?
R: Non credo si possa dire che io abbia gestito i personaggi. Ali di China è di fatto il mio primo romanzo, o almeno il primo che abbia portato a termine, e la sua gestione è stata improntata alla più totale mancanza di metodo. Avevo in mente alcuni ruoli chiave, questo sì. Sapevo che ci sarebbe stato un protagonista e che sarebbe entrato in un dialogo conflittuale con l’entità che lo possedeva e lo costringeva a uccidere. Sapevo che questo protagonista avrebbe avuto una compagna, ma non sapevo che la compagna sarebbe diventata ben più di una comparsa nella vicenda. Sapevo che ci sarebbe stata di mezzo la polizia, dunque mi sarebbe servito un ispettore, che non sarebbe stato un ispettore duro o determinato, anzi, sarebbe stato pieno di dubbi e alla fine avrebbe messo in discussione la sua stessa adesione alla polizia. Questo è ciò che sapevo perché lo sentivo, ma in larghissima parte i personaggi hanno scelto da sé quel che volevano fare, pagina dopo pagina. Il personaggio più complesso è stato proprio la creatura che possiede il protagonista perché è un soggetto problematico per me. Ne condivido buona parte delle motivazioni, ma in nessun modo posso accettare i suoi metodi, che in buona sostanza si riassumono in: uccidere! Quello sì è un personaggio che più di ogni altro si è tracciato da solo la propria strada.
4. Autocritica.
D: Se dovessi dare un giudizio al tuo romanzo da lettore, che giudizio sarebbe?
R: Sono sempre stato molto più incline a perdonare gli errori altrui rispetto ai miei e non sono mai soddisfatto del mio lavoro. Se pure il romanzo ha alcuni pregi, di certo non gli mancano i difetti. Come ho già detto, non ho lavorato alla struttura e ai personaggi prima di iniziarne la stesura. Quindi concordo con chi mi dice che sarebbero servite alcune decine di pagine in più per tratteggiare i personaggi e fissarli nella mente del lettore. Circa il linguaggio e lo stile, non posso che essere felice di aver beneficiato dell’editing di Laura, perché spesso la prosa si complicava inutilmente, facendosi affannosa. A volte infilavo a forza nozioni e riferimenti solo per certificare di conoscerli, un approccio sbagliato già all’interno di un saggio, figuriamoci in un romanzo. Un certo lavoro di cesello (e di martello pneumatico) è stato necessario per rimuovere o adattare ciò che non andava. In ultima analisi è pur sempre il primo romanzo che io sia riuscito a completare e in alcuni passaggi l’arroganza giovanile di quei tempi ancora traspare, ma è anche un romanzo che si fa leggere volentieri e che presenta alcuni personaggi – soprattutto femminili – ai quali sono tutt’ora affezionato, per riuscita e significato.
5. Il pubblico.
D: Hai avuto un riscontro critico da parte del pubblico?
R: Sì, alcuni complimenti mi hanno persino spiazzato, mentre le critiche non mi hanno stupito granché, la maggior parte me le ero già mosse da solo. Il complimento a cui tengo di più è che non sia comune per un uomo descrivere personaggi femminili nel modo in cui l’ho fatto io e questo mi ha reso molto felice. Nella creatura che possiede il protagonista (sì, è femmina) ho riversato alcuni tratti nobili che io attribuisco alle donne e a loro soltanto, anche se poi le esigenze di trama hanno richiesto che il personaggio si sviluppasse in un certo modo, ma questo lo lascio scoprire ai lettori. Anche la compagna del protagonista, che a dirla tutta è una protagonista quanto lui, è un personaggio solido che ha carattere da vendere, un altro tratto che non è sfuggito al commento dei lettori. Credo che, nei limiti di un’opera prima, Ali di China sia piaciuto a chi l’ha letto.
6. L’orrore.
D: Cos’è per te l’orrore?
R: Credo che il concetto di orrore sia mutato parecchio per me, negli anni. Se ripenso ai film che guardavo da ragazzo, l’orrore era esclusivamente soprannaturale. Faceva leva su un miscuglio di disgusto e repulsione e insisteva in larga parte sulla paura della morte. Oggi tutto questo mi è distante e, benché non abbia certo smesso di temere la morte, mi lascia largamente insensibile in un’opera. Il vero orrore – e spero traspaia in Ali di China – è per me interiore e personale. Il mio protagonista si trova a compiere omicidi efferati con le proprie mani. Non è lui a rischiare di morire, eppure preferirebbe fosse così, perché la morte è cosa ben più leggera di una intera vita corrosa dai rimorsi e dalla consapevolezza di esserci macchiati di atti che non ci perdoneremo mai. Ecco cos’è per me l’orrore: sondare quanto profonda può essere l’abiezione umana e poi ricordarmi che sono umano anche io e dunque quel mostro è dentro di me, come in chiunque altro. Io ne ho paura e mi adopero per tenerlo sotto controllo, per non farlo emergere mai, ma so che non tutti faranno altrettanto. Qualcuno anzi lo sguinzaglierà di proposito e assisterà ghignando al suo fare scempio di innocenti. Ed ecco le guerre, le città rase al suolo, i bombardamenti e gli attentati esplosivi, ecco le deportazioni di massa, i campi di prigionia, ecco migliaia di corpi in fondo al mare mentre l’Europa commenta annoiata “potevano restare dov’erano”. Ecco la violenza di Stato, ecco il ritorno in auge della pena capitale, ma soprattutto ecco la violenza domestica, fisica o psicologica che sia: migliaia di donne stroncate da quegli uomini che giuravano di amarle. Ecco il continuo tentativo di far sentire l’altro come carente, inferiore, uno sbaglio irrimediabile, per renderci docili e servili pupazzi di carne da governare a piacimento e poco importa se per via di questa pressione qualcuno finisce per appendersi a un soffitto o sceglie di farsi maciullare dalle ruote di un treno, col cuore fradicio di disperazione. L’orrore vero, insomma, non viene da lontano: abita dentro di noi e scalcia di continuo per emergere.
7. Le tue letture.
D: Quali sono i libri o gli autori che ti hanno formato come scrittore?
R: Il primo romanzo horror che ho letto deve essere stato Il mondo in un tappeto di Clive Barker. Ne rimasi affascinato, lo divorai in un paio di giorni, con la voglia costante di ritornare dentro il libro ogni volta che ero costretto ad abbandonarlo. Mi lasciò un senso concreto di cosa significhi essere capaci di evocare storie e materializzarle davanti agli occhi del lettore. (Non ho la minima idea di che fine abbia fatto la mia copia. Ho appena provato a cercane una online: introvabile! Se non usata e a prezzi folli!)
Non ho invece mai apprezzato Stephen King per via del suo stile così spinto nel fornire dettagli. Sembra quasi che abbia paura di lasciare al lettore l’onere di immaginare i riccioli della storia. A Lovecraft riconosco certamente l’imprescindibilità e il merito di aver creato un genere quando non esisteva, ma – come ho detto – per me oggi l’orrore è qualcosa di intimo e personale, l’esistenza di forze soprannaturali ingovernabili mi sconvolge meno della facilità con la quale l’essere umano sa agire il male. In questo senso mi sento di affermare che il Frankenstein di Mary Shelley è infinitamente più orribile di quel che si agita a Providence.
Fra gli scrittori italiani Valerio Evangelisti occupa un posto speciale. Mi ha insegnato molto sulla strutturazione di un romanzo (penso qui al ciclo di Eymerich, basato su più piani temporali), oltre che sullo stile e sulla incisività nel concretizzare i personaggi. Non solo il suo celeberrimo inquisitore è fatto di carne e ossa nella mente del lettore, ma anche altri personaggi – come l’Eddie Florio di Noi saremo tutto – si ergono davanti agli occhi, riga dopo riga, come se li stessimo incontrando davvero. Non lo so ancora fare come vorrei, ma almeno grazie a Valerio so in che direzione devo camminare per dare davvero vita ai miei personaggi.
Oltre a Evangelisti, sento di essere riconoscente a molti altri autori italiani. Cito in ordine sparso Giuseppe Genna (Nel nome di Ishmael), Sandrone Dazieri con il ciclo del Gorilla, Carlotto e ancora i Wu Ming, che ai tempi di Q si firmavano Luther Blisset. Un altro autore che ha un posto speciale nella mia formazione è Fenoglio, con Il partigiano Johnny. Ad esempio la mescolanza di frasi inglesi e narrazione italiana mi colpì al punto da tornarmi in mente durante la scrittura de Il gioco dei Dumpire, quale escamotage per rendere l’idea della fusione mentale fra due individui di culture diverse.
Poi ci sono tutti gli autori di fantascienza, dai classici, dal paradigmatico Asimov all’inarrivabile P.K. Dick (quando pensavo che i suoi romanzi fossero il massimo, ho scoperto i suoi racconti e sono impazzito). La generazione del cyberpunk ha significato moltissimo per me: Sterling, Gibson, lo Snow crash di Neal Stephenson. E ci aggiungerei anche Orwell. Checché ne dica il mainstream, 1984 è un’opera di fantascienza fatta e finita.
Ho citato solo una donna sinora e devo ammettere di aver letto più autori che autrici, ma questo è avvenuto davvero per un caso e null’altro. Riparerò almeno in parte concludendo questa antologia personale con Isabel Allende, della quale La casa degli spiriti rimane per me esemplare per eleganza e capacità evocative.
8. Sconsigli da autore.
D: Hai capito bene. Quali sono i tuoi s-consigli per chi vorrebbe pubblicare per la prima volta?
R: Il primo suggerimento suonerà bizzarro, ma questo è: non scrivere mai per pubblicare! Hai letto benissimo: ti sto consigliando di scrivere solo per il gusto di scrivere, o produrrai spazzatura che nessuno vorrà leggere. Quando avrai finalmente realizzato la tua opera e ne sarai soddisfatto, solo allora ti preoccuperai di pubblicarla.
Evita il self publishing: è come suonare con la chitarra per strada, sperando che qualcuno si fermi ad ascoltarti e ti dia una moneta. Una casa editrice invece è un’etichetta discografica che ti segue nell’editing, nell’impaginazione, nella creazione della copertina, nel posizionamento e nella promozione. E per l’amor del cielo, non cedere mai alle (scadenti) lusinghe di certi soggetti che ti chiedono denaro per pubblicare. Una casa editrice si prende il rischio di portarti sul mercato, quelli che chiedono soldi a te hanno già fatto così il loro guadagno e della tua fortuna e delle tue fatiche non gliene importa un accidente.
Quando invii il tuo lavoro, informati, informati, informati! Non sparare dattiloscritti col mitragliatore addosso a tutte le case editrici che trovi su Google. Seleziona solo quelle il cui piano editoriale potrebbe includere la tua opera senza forzature. Accertati della modalità con la quale la casa editrice gradisce essere contattata. Accettano testi in questo periodo o ci sarà una selezione più avanti? Vogliono una email o un plico stampato? Tutta l’opera o appena qualche capitolo? La sinossi! Scrivi una sinossi come si deve e non dimenticarti il finale: non stai facendo promozione, stai parlando con esperti del settore. Manda tutto questo nelle forme opportune e quindi… esercitati nella meditazione!
Assapora l’attesa della risposta, non avere fretta, la calma è la virtù dei… Ehi! Ti vedo che scrivi alle case editrici: “Sono otto giorni, sei ore e trentaquattro secondi che avete in visione il mio capolavoro! Quanto vi occorre per assicurarvi il mio genio?!?” Pazienta e usa quel tempo per chiederti: perché scrivo? E qual è la prossima cosa che voglio scrivere? Sono soddisfatto del mio lavoro? Ho già scritto l’opera che avrei voluto trovare sugli scaffali delle librerie? Sarà il migliore uso che potrai fare dell’attesa.
9. E poi.
D: Quali sono i tuoi progetti futuri?
R: La verità è che la situazione degli ultimi due anni, fra questioni personali e una cosina chiamata pandemia, mi ha strozzato la vena creativa. Lo dico con franchezza perché mi sentirei ridicolo a non ammetterlo. Ho messo insieme un paio di racconti e nulla più e mi sta bene così.
Il fatto è che, anche se non scrivo con la fissa di pubblicare, scrivo pur sempre per raggiungere i miei simili e stabilire con loro un dialogo. Negli ultimi mesi ho sentito sempre meno questa possibilità, per via del clima di isolamento che tutti conosciamo, e ciò mi ha tarpato le ali, come dicono quelli che parlano solo per cliché.
Qualcosa sta cambiando però. Ho molti modi di vedere la scrittura; fra questi, mi piace pensarla come una madre che si prende cura dei propri figli e delle proprie figlie. So quanto efficace sia nel medicare le ferite che la vita ci infligge, perciò ho finalmente ripreso il filo di certi discorsi lasciati a lungo in sospeso. Al momento sto lavorando al terzo titolo del ciclo dei Dumpire, iniziato con Il gioco dei Dumpire e proseguito con Le strade di Lamion (ancora inedito). Non si tratta di horror, ma di fantascienza, anche se dall’horror il ciclo mutua figure come vampiri, mummie e fantasmi, per reinventarli in chiave cyberpunk. Ali di China e quei romanzi hanno in comune alcune cose, ad esempio la città di Milano, nella quale ambiento tutto ciò che scrivo. In tutti, inoltre, maschero da narrativa di genere certe mie riflessioni sul senso di essere umani, sull’importanza di costruire una società inclusiva e capace di rispettare gli individui, o altre riflessioni ancora circa i pericoli e i problemi che si manifestano quando l’avidità e la crudeltà diventano le uniche lanterne che guidano il percorso del genere umano. Lo so, letta così sembra una pippa che ammazzerebbe un rinoceronte, ma posso garantire di saperla toccare anche con leggerezza. A voi, lettori e lettrici, il piacere di scoprirlo.
Ah, quasi dimenticavo! La notte scorsa mi è apparsa in sogno Lili, chiedendomi: sei sicuro di aver raccontato tutto su di me? Mi sono svegliato di soprassalto, madido di sudore. Credo sia meglio considerare con attenzione la sua domanda: tremo all’idea di diventare il suo prossimo ospite.
Grazie per il tuo intervento e in bocca al lupo per tutto.
(Daniele Picciuti)