Dietro le porte della creazione: salute, oscuro duende…(Federico Garcia Lorca)
In tutti i paesi la morte è un fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio. (1)
E dov’è questa morte, dov’è questo rasoio che taglia la carta come taglia i ricordi di chi resta? Cos’è questa morte?
Proviamo a sussurrare a fior di labbra una parola, correndo il rischio, da assumere comunque, che nominando si chiami a raccolta l’essere, fino alla sua manifestazione: duende.
Ahi, petenera gitana!
Ahiahi petenera!
Il tuo funerale non ebbe fanciulle
Buone.
Fanciulle che a Cristo morto danno
le loro ciocche,
E portano bianche mantiglie
Nelle fiere.
Il tuo funerale fu di gente
Sinistra. (2)
Non si scende a patti con il duende, forse con il diavolo sì, ma non con il duende.
Lo sa il poeta, lo sa la ballerina di flamenco, lo sa ogni interprete di quella poesia che non ti invade il cuore se non salendo dalla pianta dei piedi.
Viene dal basso, il duende.
E fa stridio di vetri, lamento, lotta di sangue addormentato in stanze oscure dietro le porte della creazione.
Prosciuga il sangue, il duende.
Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un ragazzo portò il lenzuolo bianco
Alle cinque della sera.
Una cesta di calce era già pronta
Alle cinque della sera.
Tutto il resto era morte e solo morte
Alle cinque della sera. (3)
Non è angelo, non è musa il duende.
Sono “suoni neri”(4), i suoi.
Il suo cibo il corpo che vibra e in cui si accasa, il sangue che ribolle, il dolente canto che fa nascere cose nuove e scuote con il ritmo sussultorio delle vibrazioni terrestri: «suoni neri dietro i quali stanno da tempo in tenera intimità i vulcani, le formiche, gli zefiri e la grande notte che si cinge la vita con la via lattea».
Il duende del bordo, il duende della ferita.
Sale Ignazio la gradinata,
Tutta la sua morte a spalla.
Andava in cerca dell’alba,
E l’alba non esisteva.
Cerca il suo fermo profilo,
E il sogno lo disorienta.
E il suo bel corpo cercava
E trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo! (5)
E resta oscuro il duende, ritroso a farsi incasellare in una definizione.
Perché il duende è un agire, non è un pensare.
È un lottare, continuo, strenuo, sostanziale come la vita stessa. La vita consacrata all’arte. Ogni arte.
Per una strada va
La morte, inghirlandata
Di fior d’arancio appassiti.
Canta e canta
una canzone
sulla sua chitarra bianca,
e canta e canta e canta. (6)
Sopraggiunge, il duende, annusando l’odore del sangue in tempesta, cavalca un bordo, salta i lembi della ferita per tuffarsi nella carne viva, dalla quale ogni passo di danza, ogni verso, ogni nota vengono partoriti. Ma per dare luogo alla ferita c’è bisogno del rasoio, quello affilato del profilo dei morti, che taglia di netto la realtà per lasciar oltre-passare ogni visione, ogni immagine, ogni soffio che viene dall’altrove.
Per cercare il duende non v’è mappa né esercizio. Si sa soltanto che brucia il sangue come un topico di vetri, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che fa sì che Goya, maestro nei grigi, negli argenti e nei rosa della migliore pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni in orribili neri di bitume; o che spoglia Don Cinto Verdaguer con il freddo dei Pirenei, o porta Jorge Manrique ad attendere la morte nella landa di Ocaña, o copre con un vestito verde da saltimbanco il delicato corpo di Rimbaud, o mette gli occhi da pesce morto al conte di Lautréamont nell’alba del boulevard. (7)
Nessuna emozione è possibile, senza l’arrivo del duende.
Emozione come espressione del profondo, come un lamento, un de profundis. Che avviene nello spazio dell’abbandono, della solitudine, affinché tale e tanto sia lo spazio che il duende se ne possa appropriare per rompere gli schemi e cominciare, ogni volta daccapo, una nuova creazione.
La Niña de los Peines dovette lacerare la sua voce perché sapeva che la stava ascoltando gente squisita che non chiedeva forma, ma midollo di forma, musica pura con il corpo raccolto per potersi sostenere in aria. Dovette sminuire le sue capacità e le certezze; cioè, dovette allontanare la sua musa e rimanere abbandonata, perché il suo duende arrivasse e si degnasse di lottare a mani nude. E come cantò! La sua voce non giocava più, la sua voce era un getto di sangue. (8)
La sua voce era un getto di sangue.
Sangue radice dell’essere umano, suo umore più oscuro, che lo lega alla terra, alle acque oscure in cui ha sostato prima della nascita. La sua voce era un getto di sangue.
Io qui voglio vedere uomini di dura voce,
che domano cavalli e dominano i fiumi:
Uomini cui risuona lo scheletro, e cantando
Vanno con una bocca piena di sole e sassi.
Io qui voglio vederli. Dinanzi a questa pietra.
Dinanzi a questo corpo con le redini rotte.
Io voglio che mi mostrino dov’è lo sbocco estremo
Per questo capitano ancorato alla morte. (9)
«Il duende…Ma dov’è il duende? Dall’arco vuoto entra un’aria mentale che soffia con insistenza sulle teste dei morti, alla ricerca di nuovi paesaggi e accenti ignorati; un’aria con odor di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create». (10)
Il battesimo dell’acqua scura, del sangue e del dolore.
Il battesimo del duende, della poesia di Federico García Lorca.
(1)F. García Lorca, Gioco e teoria del duende, Adelphi, Milano, 2007.
(2)Id., Variazione, in Grafíco de la Petenera, in Canti Gitani e Andalusi, Ugo Guanda Editore, Parma, 2005.
(3) Id., La cornata e la morte, in Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, in cit., p. 205.
(4) Cfr. Id., Gioco e teoria del duende, cit.
(5) Id., Sangue sparso, in cit., p. 209.
(6) Id., Clamore, in Grafíco de la Petenera, in cit., p. 145
(7) Id., Gioco e teoria del duende, cit.
(8) Ibidem.
(9) Id., Corpo presente, in Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, in cit., p. 215.
(10) Id., Gioco e teoria del duende, cit.
(Maria Carla Trapani)