La pioggia, Alessandria e tutto il resto (intervista a Angelo Marenzana)
Sarà per via del troppo tempo libero di cui dispongo o perché non sono mai riuscito a coltivare seriamente nessun altro hobby oltre alla lettura ma sempre più spesso mi ritrovo a mettere in fila delle parole e, mentre cerco di dare un senso compiuto alle frasi che spargo sul foglio bianco, mi capita di pensare. Se devo essere sincero, non sono un tipo concreto, parto spesso per la tangente e sfioro grandi e piccoli quesiti artistici.
Un giorno mi sono chiesto cos’è la poesia. D’accordo, uno come me non è la persona più indicata a rispondere, ma alla fine di qualche contorto giro di neuroni mi sono fatto un’idea; certo ci sono regole, sillabe e rime, ma non basta l’esatta applicazione di tutte queste complicazioni per scriverne una, senza contare che ne esistono di ottime che ignorano del tutto o quasi le regole di cui sopra, quindi?
La definizione più onesta, non la più completa sia chiaro, che sono riuscito a darmi è semplice: è una meraviglia frutto dell’incontro tra la magia più pura e il miracolo più raro. Questo incanto nasce nella sensibilità del poeta e prende forma nei versi che sanguinano sulla carta.
Va bene, mi sono lasciato prendere la mano, ma parlando di poesia è facile che accada un inconveniente del genere.
Se penso a Passata è la tempesta, un verso scritto da Leopardi un po’ di tempo fa, riesco a sentire una sorta di sollievo. Per via del tempo in cui viviamo, purtroppo, è una sensazione che dura poco, pochissimo, ma ha il potere di agire sul mio stato d’animo e tutto questo con sole quattro parole.
Vi sembra poco?
Sempre rimanendo in tema di temporali ma per meglio rappresentare l’incertezza in cui siamo intrappolati, prendo in prestito i versi del Montale e afferro per la coda il lampo che candisce/alberi e muro e li sorprende in quella/eternità d’istante. Anche voi avete la sensazione che, nonostante il frenetico rincorrersi di notizie e “fatti”, in realtà non si stia muovendo niente?
Noi tutti, nessuno escluso, tanto per non citare un poeta ma il saggio Tyler Durden, stiamo lucidando le maniglie al Titanic.
Certo, quando Eugenio Montale scrisse La bufera e altro, la seconda guerra mondiale era nell’aria e addensava nuvole nere della peggiore specie ma se non vogliamo pensarci e finché il Titanic va, lascialo andare, potremmo anche credere che non tutti gli acquazzoni vengono per nuocere e provare ad amare sensualmente l’infausto destino celato da pioggia lieve, lasciando che cada su i freschi pensieri/che l’anima schiude/novella/su la favola bella/ che ieri/ m’illuse, che oggi t’illude come ha cantato il D’Annunzio.
Così, come se nulla fosse, son partito con il parlare d’arte e mi ritrovo a parlare del tempo metereologico.
Eppure, ci sono persone che invocano i temporali, come L’uomo dei temporali, uno “sciamano” in grado di attirare l’acqua dal cielo, perché spazzi via tutti i segreti di una intera città e dia sollievo a una terra assetata.
L’Uomo dei Temporali è un romanzo scritto da Angelo Marenzana ed è un giallo storico, ambientato ad Alessandria nel settembre del 1940. Tre mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il cadavere di Dede, al secolo Onofrio Scipioni, viene rinvenuto nel suo appartamento. Due colpi alla schiena e uno alla nuca fanno dell’omicidio una fredda esecuzione, tanto quanto basta per fare sprofondare l’intera comunità in un incubo. Il caso viene affidato a Augusto Maria Bendicò, un commissario che emerge dalla nebbia alessandrina e dalla vuota retorica fascista. Per via della sua sottile ironia e del pensiero persistente di avere perso sua moglie, non si lascia distrarre dai confini vaghi di mezze bugie e da facili accomodamenti sino a quando una verità scomoda affiora dalle indagini.
Dede non era una mezza tacca del crimine, non è mai stato solo un baro, ma l’uomo a capo di un rete di scommesse, prostituzione e contrabbando che intrappola tutti, o quasi, i potenti della tranquilla Alessandria.
Il questore Zappia vuole un colpevole per riportare la città nel ritmo lento della campagna e alla vita scandita dai turni in fabbrica ma Bendicò avrà qualcosa in più da consegnare all’odiato superiore…
Diamo il benvenuto, qui tra i tavoli del Nero Cafè, ad Angelo Marenzana.
Mirko: Per ragioni anagrafiche non ho vissuto il tempo in cui è ambientato il tuo romanzo ma leggendolo si respira la stessa “brutta aria” di chi, quel tempo, l’ha vissuto e raccontato. Tu sei nato negli anni ’50, allora qual è la tua formula segreta? Come hai fatto a farmi rivivere quel tempo?
Angelo: La formula segreta sta nell’ascolto. Faccio parte di quella generazione a cui le storie venivano ancora raccontate. La comunicazione era fatta di chiacchiere e radio. E così pure il tempo libero. La TV (con le sue immagini) non era ancora un patrimonio collettivo e nemmeno una potenza invasiva. I “vecchi” (o quelli che apparivano tali, visto che negli anni a cavallo tra i 50 e i 60 chi aveva fatto la guerra o aveva vissuto il regime erano i trenta-quarantenni) tiravano fuori dal cappello storie, aneddoti e sapevano rievocarle con grande fascino. L’esperienza della guerra era finita da poco, la brace scottava ancora e la voglia di liberarsi di quel peso non aveva fine. E così, via alle chiacchiere di cortile, di bottega o negli ambienti famigliari, sulle panchine dei giardini, nei bar, allo stadio, negli ambienti sindacali come in vacanza. E a dare vita alle parole c’era una teatralità espressiva capace di far riemergere emozioni sepolte, che fosse un episodio drammatico, paura, passione, desiderio, rabbia, vergogna. O più semplicemente lo scherno. Parole che nella totalità dei casi venivano espresse in dialetto, condite dall’ironia insita nella cultura popolare fatta di detti in rima, di soprannomi, di ironia tagliente. A tutto questo si aggiungeva l’azione come nelle migliori immagini cinematografiche. Perché si raccontavano episodi di guerra, di fuga, di ribellione. Ne L’Uomo dei Temporali io non ho ripreso quei fatti specifici, ma ho cercato di interpretarne l’atmosfera. L’anima che ne guidava le parole. Mi sono limitato ad aprire lo scrigno dei miei personali ricordi, senza accanirmi nella ricerca della “verità vera” per dare alla parte scritta più naturalezza e non correre il rischio di andarmi a invischiare in una logica di storicismo che mi avrebbe allontanato dal mio progetto originale. Così ho cercato di tirare fuori tutti quegli ingredienti che potessero dare sapore al mio piatto da romanzo storico e provare a consegnare al lettore una testimonianza del passato.
Mirko: Tempi moderni vs tempi passati. Hai scelto di ambientare un giallo nel passato, in un periodo in cui c’era una gran confusione, una vera e propria Bufera tanto per citare il Montale, ma tutto sembrava più chiaro; da una parte gli uni e dall’altra gli altri. Era davvero così semplice? Dal tuo romanzo non sembra, parecchie ambiguità strisciano sotterranee. Pensi che sia cambiato “il pudore”, che alla fine lo sporco sia stato così spregiudicato da togliersi la maschera e mostrare a tutti il suo vero volto o sia solo una questione di “confusione”?
Angelo: Come faccio dire ai miei personaggi, «Le fondamenta della nostra civiltà sono le mezze verità e le mille certezze.» Un concetto che si può allargare a tutto il mondo europeo coinvolto nel “trentennio”, ovvero l’arco temporale tra prima e seconda guerra mondiale. Era l’epoca di due grandi ideologie emergenti che si contrapponevano in modo prepotente e ribaltavano molti dei concetti culturali ed economici dominanti fino agli inizi del ‘900. Tutto ciò ha prodotto anche una guerra, non solo militare, all’interno della guerra stessa scolpendo in maniera netta le figure dei buoni e dei cattivi, secondo il proprio punto di vista. E a offrire il palco per le prove di un nuovo ordine internazionale è stata la Spagna con la guerra civile che ha segnato un milione di morti in mille giorni di combattimenti. Una cifra spaventosa. Però, mentre gli altri paesi hanno fatto buon uso dell’esperienza della guerra, noi ci siamo riempiti la bocca di grandi quanto invidiabili concetti ma abbiamo lasciato campo aperto al dilagare di esperienze negative, dal terrorismo, alla mafia, allo scandalo della politica, alla corruzione dilagante. Problemi spesso lasciati a macerare fino a farli implodere. E la stessa cosa è successa al regime fascista. La presunzione e l’arroganza hanno portato alla guerra come vetta massima di potenza dopo la dichiarazione di invincibilità dell’Impero nel maggio del ’36. Salvo raggiungere l’apice e iniziare un crollo vertiginoso. In più, a differenza degli altri paesi, l’Italia ha nel suo DNA la capacità di tenersi sempre una porta aperta per sgusciare secondo le convenienze, siano quelle di costume, politiche o culturali. Oggi credo che stiamo assistendo a qualcosa di meno drammatico ma per certi aspetti non troppo differente.
Mirko: La tua città è al centro del romanzo, ma non credo sia solo per una questione “tecnica”, un po’ alla “scrivo di quello che conosco”; come per Danilo Arona e Giorgio Bona anche in te c’è un legame con la città dei due fiumi. Cos’ha di speciale Alessandria?
Angelo: A volte penso nulla. E forse è per questo che è perfetta per essere narrata. Ci puoi inserire quello che vuoi. Poi penso alla sua collocazione geografica (tra Milano, Piacenza, Torino e Genova) all’essere periferia delle grandi industrie, centro di smistamento dei collegamenti stradali e ferroviari, alla sua storia antica, alla distanza anche culturale dal resto del Piemonte pur essendone il cuore, alla riservatezza e ironia dei suoi cittadini e del suo dialetto, alla nebbia, ai fiumi, alla poca cura per le proprie risorse e tesori, alla poca capacità di vendere le proprie eccellenze culturali e imprenditoriali e di starsene sempre un po’ in disparte e allora ci ripenso. C’è molto, tra buono e meno buono. E, come un virus in coltura, si assiepa nella nostra personalità pronto a esplodere in una pandemia dal profilo letterario.
Mirko: Augusto Maria Bendicò, anche lui è alessandrino?
Angelo: Di origini siciliane, ma alessandrino nel cuore. Accomunato dalla sua riservatezza, dalla capacità di reggere il dolore per la morte della moglie Betti e sopportare la propria solitudine senza però farsi trascinare dalla disperazione. E dall’ironia. Una risorsa pungente. Quella che spesso ha salvato gli alessandrini nei momenti bui della storia. E questo piace al commissario Bendicò. Quell’atteggiamento che non si nutre né di rancore né di lamentela. Persone ordinarie, rispettose e pettegole come conviene con le regole della vita collettiva. Persone capaci di commettere errori. Per fortuna mai troppo gravi. Persone che gli fanno dire: “Ormai credo di conoscere l’anima di Alessandria e so che il giorno in cui esploderà la prima bomba, tutti tratterranno le lacrime nel proprio cuore piuttosto che versarle in mezzo alla strada alla mercé di chiunque. E si sforzeranno di rendere il dramma più umano.”
Mirko: La prima cosa che mi ha colpito, leggendo il tuo romanzo, è la presenza di un giro illecito e clandestino di prostituzione in un periodo in cui esistevano le case di tolleranza. Per quanto la morale comune fosse “tollerante”, le vie del crimine battevano altre strade. Bendicò mantiene una dimensione umana, percorre la società degli anni della seconda guerra mondiale e giunge a una verità capace di scardinare la coscienza di una intera nazione. Pensi che il crimine in molte delle sue manifestazioni sia lo specchio della nostra società?
Angelo: Il crimine (se accantoniamo la violenza cruda e insensata condita dall’esasperazione dei sentimenti e dalla follia umana) è un’attività commerciale perché mira al profitto. E il profitto lo si ricava offrendo sul mercato clandestino un “prodotto” richiesto che in termini legali non può essere acquistato. Oppure investendo nel futuro, cioè preparando il terreno per nuovi bisogni da soddisfare. Quindi il rapporto tra bisogni reali, bisogni indotti e costume sociale per molti aspetti si riflette in una malavita che pubblicamente detestiamo ma che nel privato soddisfa i nostri bisogni. Facendo un esempio dell’oggi, molte attività illegali e redditizie si basano sullo sfruttamento e sulla schiavitù, magari sulle speculazioni o sull’evasione fiscale. Eppure ogni giorno ognuno di noi gode di questi “servizi” acquistando cose più a buon mercato rispetto a quelle ottenute nel rispetto delle regole civili.
Mirko: L’Uomo dei Temporali è una leggenda, ma nel romanzo qualcuno dei protagonisti riveste realmente questo ruolo? C’è bisogno di un acquazzone per “pulire” Alessandria?
Angelo: Quella dell’Uomo dei Temporali è una metafora che ha un senso per l’epoca narrata, però se devo essere sincero, oggi, nel 2014 ci vorrebbe un bell’acquazzone per ripulire Alessandria e le coscienze sporche di chi negli ultimi trent’anni l’ha ridotta nello stato in cui si trova per colpa di una gestione del bene pubblico scandalosa e ignorante.
Mirko: La storia non è soltanto una materia noiosa da studiare sui banchi di scuola. Tra i tuoi progetti futuri è prevista un’altra incursione nel passato?
Angelo: Si. Il prossimo appuntamento è con una nuova indagine che si sviluppa nei giorni che hanno preceduto il bombardamento di Alessandria del 30 aprile del ‘44 con circa 250 vittime. Pagine del passato che sarebbe bene non scordare.
Ringraziamo Angelo per la sua disponibilità e gli auguriamo buona scrittura!
(Mirko Giacchetti)