Tragedie moderne e serie tv
Breaking Bad, Gomorra, Narcos. Tre serie che vengono viste e riviste di continuo e che, con il passare degli anni, guadagnano sempre più appassionati allargando il numero di quanti le visualizzano attraverso le piattaforme di streaming. Tre serie dove lo spettatore si lascia prendere dalla fascinazione del crimine.
In Breaking Bad la progressiva evoluzione del protagonista da professore di chimica malato di cancro che non sa come sbarcare il lunario a produttore e spacciatore di metanfetamine che si muove da padrone nelle dinamiche del sottobosco dello spaccio suscita brividi di soddisfazione e appassiona lungo il corso di episodi e stagioni.
Gomorra, dal canto suo, sceglie di ignorare volutamente le vicende di chi la legge la amministra e introduce lo spettatore direttamente nel mondo dove vivono i criminali, dai capi delle famiglie al più giovane soldato della paranza. Le loro vicende che ci tengono agganciati allo schermo riguardano lotte di potere, ascesa e caduta dei boss e dei loro eserciti di fedeli.
Narcos, invece, parte quasi come una docufiction sulla vita e la morte di Pablo Escobar per poi proseguire con il cartello di Cali e spostarsi con uno spin-off sul versante messicano per raccontare le vicende del cartello di Guadalajara e della guerra tra agenti della narcotici e signori della droga, cercando di mantenere un certo equilibrio tra le vicende delle due fazioni.
Eppure, anche se con disapprovazione, la spregiudicatezza con la quale un signore della droga decide della vita e della morte non solo dei propri amici e nemici ma addirittura di quella di un primo ministro e di un intero paese non può che risultare affascinante.
Al termine delle vicende, se vogliamo essere precisi, arriva spesso una tragica fine che può riguardare qualcuno dei personaggi, ma, ammettiamolo, per quanto funzionale alla storia, talvolta sembra più una conclusione “dovuta” che quella che realmente ci si aspetterebbe.
Siamo dunque una massa di potenziali criminali, signori della droga, pronti a organizzarci in bande e a scendere nelle strade per conquistarci una piazza di spaccio dove vendere le nostre metanfetamine e poi scalare il potere fino a guardare negli occhi i politici e dirigerne le vite? Che funzione vogliamo assegnare a storie di questo genere?
Proviamo a cercare una risposta in un viaggio a ritroso nel tempo, e come prima tappa ci fermiamo nel 1866, quando Fedor Dostoevskij pubblica Delitto e Castigo, il capostipite del genere noir (e in merito c’è ampia letteratura critica). Inoltrandoci ulteriormente nel passato incontriamo William Shakespeare che, nella Londra del Cinquecento, affronta storie di gelosia assassina, di smodato desiderio di potere, di delitti e di suicidi, riuscendo a trattare anche del valore di una vita umana e immortalando momenti di altissima tragedia.
Ed è alla tragedia che si ferma il nostro percorso nel passato. Proprio quella della Grecia Classica, scritta e codificata da Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Per un momento scrolliamoci di dosso l’inevitabile senso di pesantezza seriosa prodotta da eventuali ricordi legati alla scuola, non pensiamo agli spettacoli estivi nelle arene storiche dove anche lo stesso linguaggio, a volte, risulta di difficile comprensione. Insomma, andiamo oltre la cosiddetta (per alcuni) “pallosità” del genere e guardiamo i temi che vengono narrati: abbiamo un protagonista “uomo comune” la cui vita cambia per un evento fortuito che lo spinge a riguardare la propria vita con ottica diversa e a scegliere tra bene e male. La scelta ricade sempre sulla seconda opzione e, per il protagonista, si apre una vicenda che lo porterà, inevitabilmente, a pagarne le conseguenze, dinanzi agli uomini e agli Dei, con la propria vita. Se però a una tragedia greca togliamo alcune parti, quali il coro che commenta le azioni, l’intervento degli dèi dell’Olimpo, e ne attualizziamo il linguaggio, le storie somiglieranno non poco a quelle dei serial di cui parlavamo all’inizio.
Per gli antichi greci, inoltre, così come per gli inglesi del periodo shakespeariano, il teatro era un’esperienza fondamentale, per il quale si riunivano in massa, dove si recavano insieme a figli e coniugi perché, per loro, la tragedia era il luogo della catarsi, ovvero il distacco liberatorio dalle passioni rappresentate in scena. Lo spettacolo, infatti, concedeva agli spettatori un effetto rasserenante rispetto a quanto vivevano quotidianamente. La funzione della tragedia è sempre stata, dunque, quella di aiutarci a vivere le passioni esercitando quello che viene chiamato senso critico riguardo a quanto vediamo rappresentato. Ci appassioniamo seguendo le vicende di uomini comuni che diventano boss del crimine ma sappiamo bene qual è il modo giusto di vivere. Opere noir di letteratura, cinema, serial, non sono “cattive” di per sé, ma può essere (eventualmente) “cattivo” l’uso che se ne fa nel momento in cui le facciamo diventare un riferimento per la vita quotidiana.
La visione di questi serial in alcuni casi e per alcuni spettatori può aver bisogno di un’elaborazione critica. Attenzione, però: elaborazione critica, non rifiuto netto come vorrebbe l’epidemia di politically correct che ultimamente sta portando a vietare addirittura cartoni animati e film classici di Hollywood perché “potrebbero risultare fuorvianti per i giovani”.
Troppo comodo, direi. Certo, è più facile mettere un “vietato ai giovani” che sedersi accanto a loro e accompagnarli nell’elaborazione di ciò che stanno guardando.
Così come è comodo, a volte, far finta di niente di fronte alla fascinazione esercitata sui giovani di alcune fasce sociali nel prendere ad esempio storie di loro coetanei che dal nulla diventano boss anche se poi finiscono uccisi.
Ma questa è un’altra storia.
(Arturo Fabra)