Nero a nord: alle radici del giallo scandinavo
Nel 1975 sotto il porticato che circondava la piazza dove aveva sede il mio liceo c’era una edicola ben fornita. All’esterno aveva un espositore zeppo di libri tascabili che mi incuriosivano, e fu proprio su quella rastrelliera che scoprii l’esistenza di altri romanzi gialli oltre ai Mondadori, avevano una copertina “strana” con disegni più stilizzati e due occhi come logo, erano i Gialli Garzanti e tra tutti gli autori c’era una coppia che mi affascinò per l’impossibilità a leggere anche mentalmente i loro nomi: Maj Sjöwall e Per Wahlöö.
La lettura del primo romanzo ebbe un effetto straniante, il protagonista (Martin Beck, dal nome pronunciabile, per fortuna) mi lasciò l’impressione di un uomo triste, depresso, problematico, ancora meno infallibile di certi detective americani e soprattutto scontento e critico nei confronti della società nella quale viveva. L’ ambientazione, poi, pareva descrivere un altro pianeta: freddo, dai colori griogio-scuri, abitato da persone con comportamenti apparentemente poco emotivi alternati a momenti di subitanea violenza.
Mi ero lasciato accalappiare dal noir scandinavo.
I Gialli Garzanti chiusero e a me rimasero i Mondadori con la loro proposta di autori statunitensi, inglesi e francesi che, lentamente, fecero scivolare nell’oblio le ambientazioni nordiche.
Nel 1992 inciampai (letteralmente, c’era una pila di libri ad altezza ginocchio) in Il Senso di Smilla per la Neve di Peter Hoeg che, pur non essendo considerato uno degli alfieri del genere noir scandinavo, contribuì a riaccendere l’interesse verso questo genere e mi misi a cercarne le tracce tra gli scaffali.
Il primo autore a riportarmi in scandinavia fu Henning Mankell con il suo Wallander, un uomo che attraversa cocciutamente la propria vita sperando di sopravvivere il più a lungo possibile, aggrappato al proprio lavoro come ancora di salvezza ma che, tratto comune a tutti gli altri autori che ho letto, alza il bel tappeto della società “perfetta” nordica per mostrare quanto c’è di disfunzionante.
E quello che ci mostra non riguarda solo storie di corruzione, criminalità organizzata, traffici, ma situazioni di vera e propria sociopatia, che spesso hanno radici in un passato che ha definito tradizioni e convenzioni sociali che appaiono asfissianti.
Uno dei migliori esempi è quello di Camilla Lackberg con il suo Lo Scalpellino dove, per risolvere il delitto di una bambina, i detective devono scavare nel lontano passato di una famiglia.
Il libro è uscito nel 2005, lo stesso anno dell’esplosione della Millenium Trilogy di Stieg Larson che, non solo si prodiga nella critica sociale, ma addirittura sdoppia il proprio protagonista mostrando le due facce del desiderio di cambiamento personificandole in un giornalista disilluso ma legato alle istanze di denuncia sociale con la speranza di poter cambiare qualcosa e in una hacker fuori controllo guidata dal mero istinto di vendetta.
Spesso le vittime dei delitti dai quali prendono le mosse le storie di questi romanzi fanno parte delle fasce deboli della popolazione, ovvero bambini, donne, immigrati, quasi a mostrare la prepotenza della società tecnologicamente e socialmente avanzata verso quanti non possono adeguarsi, o forse a mostrare che il prezzo di tanta “ordinata efficienza” consiste nell’ avere una “stanza oscura” dove dare sfogo al peggio di ciascuno per poi nasconderlo agli occhi di tutti sigillandone la porta.
Il detective che affronta questi mostri diventa, a poco a poco, un vero uomo dei dolori che attraversa un percorso di difficoltà e sofferenze con l’ostinata convinzione di risolvere almeno un caso per fare giustizia di una singola vittima anche se è consapevole che non riuscirà mai a cambiare il sistema.
L’esempio più emblematico di questo lo troviamo in Jo Nesbo e nel suo Harry Hole. Seguendo le storie di Hole lo vediamo perdere letteralmente pezzi di vita, di famiglia e del suo corpo, ogni volta.
Che questo avvenga per un incidente, per l’alcolismo, per un malcelato desiderio di morte e autopunizione poco importa, il protagonista paga sempre le sue scelte in prima persona, quasi come un capro espiatorio di biblica memoria.
E in tutto questo spicca il concetto della solitudine.
Se vi piace il noir scandinavo e vi va di approfondirne le tematiche sociali mi permetto di consigliarvi la visione di un documentario dal titolo La Teoria Svedese dell’Amore.
Posso capire che il titolo risulti un po’ spiazzante, ma l’argomento basilare è proprio la solitudine.
Il documentario, infatti, mostra come la decisione di rendere autonomi i cittadini svedesi in modo da permettere a ciascuno di vivere da solo appena possibile abbia generato una società libera e ben funzionante ma anche individualista, con rapporti sociali progressivamente deteriorati. E, se ciascuno può decidere di vivere come vuole, il prezzo da pagare è quello di una estrema solitudine, tanto che è stato istituito un ministero apposito per cercare i parenti delle persone anziane che vengono trovate morte (per cause naturali) nelle loro case e delle quali non si conoscono figli, fratelli o nipoti.
Il senso che se ne ricava è identico a quello che dà la lettura di un noir scandinavo a riprova, sempre che ce ne sia bisogno, che il genere che tanto ci piace è uno dei preferiti per veicolare l’analisi e la critica della società nella quale viviamo, senza troppe differenze legate ai paesi di nascita degli autori.
E, a questo proposito, per concludere, vi invito a leggere la trilogia di Stoccolma scritta da Jens Lapidus dal 2006 al 2011 (per ora restano i soli romanzi prodotti dall’autore perché, a quanto pare, preferisce la professione di avvocato) in cui le vicende e lo stile dell’autore di sicuro vi faranno pensare ad altre storie ambientate in altre nazioni tra cui, ne sono sicuro, anche Gomorra.
Se poi volete approcciare il noir scandinavo alle radici, Sellerio sta riproponendo i romanzi del ciclo di Martin Beck scritti da Maj Sjöwall e Per Wahlöö.
(Arturo Fabra)