Borges. Un sogno dell’altro

Il sogno ha contaminato la letteratura, la mitologia e l’immaginario dell’umanità con le sue oscure e abissali alterità in modi innumerevoli e meravigliosi, dei quali si può tentare di dare conto senza poterne però esaurire le valenze. Uno dei più forti virus trasmessi dal mondo onirico è quello che mette in crisi la percezione stessa della realtà, e che è perfettamente sintetizzato dal celebre aneddoto del filosofo cinese Zhuangzi (o Chuang-tzu, IV sec. a.C.):

Una volta, Zhuang Zhou sognò di essere una farfalla. Era una farfalla che volteggiava liberamente, appagata della propria condizione. Non sapeva di essere Zhou. All’improvviso si svegliò e si accorse di essere Zhou, con la sua forma. Non poteva dire se Zhou avesse sognato di essere una farfalla, o se una farfalla stesse sognando di essere Zhou. Tra Zhou e la farfalla c’è una distinzione. Questo è ciò che si dice la trasformazione degli esseri.

La vita è una realtà che contiene noi che sogniamo, o è un sogno essa stessa? E di chi? E se ci sono sogni dentro a sogni, com’è possibile sapere se e quando siamo giunti all’ultimo livello, quello in cui la mente che sogna non è sognata a sua volta?

Ma la messa in crisi della realtà mette anche in scena il dramma dell’identità. Se tutto è immagine, chi sono Io?

L’impossibilità di rispondere conduce o al senso del tragico o alla cessazione di ogni presa, per cui il dubbio si scioglie in una risata che coincide con quella condizione in cui si abbandonano le domande in favore dell’esserci.

Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges conosceva profondamente questi argomenti, e li ha toccati, ad esempio, insieme al tema del Doppio, in due dei suoi ultimi racconti, L’altro e Venticinque agosto 1983 (tutti e due presenti in italiano nella raccolta Il libro di sabbia edita da Adelphi). In entrambi, Borges incontra se stesso a un’età diversa. In entrambi, la vicenda può essere un sogno dell’uno o dell’altro Borges. Ma è impossibile determinare quale sia l’autentico, e se ce ne possa essere uno.

Nel primo, Borges esordisce così:

Il fatto accadde nel febbraio 1969 a Cambridge, a nord di Boston. Non l’ho annotato subito perché all’inizio mi ero proposto di dimenticarlo, per non perdere la ragione.

E con queste parole chiarisce da subito con semplicità che fare l’esperienza soggettiva della messa in crisi della consistenza dell’universo ci può condurre su un soglia.

Quando i due s’incontrano, Borges riferisce una sensazione di deja vu, poi i due discutono di chi sogni chi, e il narratore, che è il più anziano dei due, offre una sorta di non-soluzione filosofica al dilemma:

«Se questa mattina e questo incontro sono un sogno, ciascuno dei due deve pensare di essere lui il sognatore. Forse smetteremo di sognare, forse no. Nel frattempo, è evidente che siamo costretti ad accettare il sogno, come abbiamo accettato l’universo e il fatto di essere stati generati e di guardare con gli occhi e di respirare. […] In fin dei conti, al risveglio non c’è nessuno che non incontri se stesso. È quello che ci sta accadendo ora, solo che siamo in due […]».

Questa leggerezza è impressionante, poiché conduce a convivere con l’assurdo, assumendo quello che Borges stesso chiama il «sistema filosofico della perplessità». Al di là di ogni istanza di vero o di falso, quello che viviamo è costantemente infondato e costantemente necessario, ovvero non possiamo che accettarlo e viverlo.

Nel finale del secondo racconto, Borges assiste alla sua stessa morte attraverso la morte dell’altro. Ma a questa morte segue un dissolvimento e poi il dissolvimento della presunta realtà.

«In un certo senso, io morivo con lui; mi chinai angosciato sul cuscino, ma non c’era più nessuno. Fuggii dalla stanza. Fuori non c’era il cortile, né le scale di marmo, né la grande casa silenziosa, né gli eucalipti, né le statue, né il pergolato, né le fontane, né il cancello della villa nel paese di Adrogué. Fuori mi aspettavano altri sogni».

Ciò che resta, dopo la dissoluzione di un sogno, non è che un altro sogno. E proprio per questo, ciò che resta è la vita. Sempre.

(Stefano Riccesi)