Non è solo il passato: la violenza sulle donne è un’urgenza del presente
Siamo a Novembre 2024. È ancora necessario parlare di violenza sulle donne? È ancora necessaria una Giornata contro la violenza sulle donne? La risposta è sì, un sì dolorosamente chiaro, che echeggia nei cuori di chi ha perso una madre, una figlia, un’amica. Un sì che grida dal silenzio delle troppe vittime rimaste senza giustizia, che vive nei racconti interrotti di chi non ha avuto una seconda possibilità.
Sì, perché questo tipo di violenza non si è affievolito, non si è placato, non ha mai davvero smesso di reclamare nuove vite. Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, si ripetono storie strazianti che ci ricordano quanto ci sia ancora da fare, quanto sia necessario continuare a lottare.
La violenza sulle donne, nella sua crudele persistenza, si insinua in ogni angolo della nostra società. È una presenza scomoda, spesso invisibile, ma radicata. E ciò che fa ancora più male è il fatto che, nonostante le grida di aiuto, questa violenza venga spesso minimizzata, sminuita, o peggio, “giustificata”. Il consenso, un concetto tanto semplice quanto fondamentale, è troppo spesso ignorato, posto in secondo piano rispetto ai giudizi sul carattere della vittima, sulle sue scelte personali, sui suoi comportamenti percepiti. Quel consenso, che dovrebbe essere il fondamento inviolabile di ogni interazione, finisce per essere travolto da narrazioni che lo mettono in discussione, come se fosse qualcosa di negoziabile. Un diritto, quello di dire no, che senza un reale scopo deve piegarsi alle opinioni di paese, all’idea che un qualunque concittadino può essersi fatto sulla vicenda, la quale, purtroppo, spesso è raccontata male e lascia adito alle chiacchiere da bar.
E così, lo stupro, una delle forme più devastanti di violenza, viene spesso ridotto a una “bravata”, una parola crudele che deride la sofferenza, che minimizza la ferita profonda e permanente che lascia dietro di sé. Una bravata. Un termine che trasforma un crimine feroce in un atto quasi innocuo, una leggerezza giovanile compiuta da un ragazzo – o da più ragazzi – di buona famiglia, sempre educati e rispettosi, ma che quella sera hanno “commesso un errore”. Sì, un errore che però deve essere punito, a prescindere dalla famiglia e dal comportamento tenuto tutte le altre volte, perché alla vittima questo lusso, non si capisce mai perché, non è concesso. E, mentre i colpevoli talvolta vengono trattati con indulgenza, le vittime sono costrette a portare il peso di un trauma che nessuno ha il diritto di sminuire.
Ma questa spirale di violenza non si ferma lì. Finché la società non imparerà a riconoscere e a condannare ogni forma di abuso, ci sarà sempre un rischio che il dolore si trasformi in tragedia. Finché non daremo il giusto peso ai segnali, alle grida soffocate, ai racconti inascoltati; finché non metteremo il rispetto e la dignità delle donne al primo posto, si continuerà a percorrere quella strada buia che porta al punto di non ritorno: l’omicidio. È allora che l’orrore si palesa in tutta la sua brutalità, quando è ormai troppo tardi per proteggere, troppo tardi per rimediare.
Lì, in quel momento, le vite spezzate rivelano il loro passato fatto di amori violenti, di minacce ignorate, di momenti che avrebbero dovuto essere salvaguardati. Si scopre che non c’era nulla di romantico in quelle relazioni distruttive, nulla di amorevole, solo un susseguirsi di atti di controllo, di possesso, di pura violenza mascherata.
È per questo che, anche se siamo al 25 novembre 2024, è ancora necessario parlarne, è ancora necessario gridare, scrivere, denunciare. Perché ogni donna che subisce violenza e non trova sostegno è una sconfitta per tutti noi, è una prova che il cammino verso una società più giusta è ancora lungo e in salita. È necessario ricordare, ogni anno, ogni giorno, che dietro le statistiche ci sono vite, ci sono volti, ci sono sogni infranti e famiglie spezzate. Perché solo mantenendo viva la consapevolezza possiamo sperare di costruire un mondo in cui nessuno debba più temere per la propria incolumità, un mondo in cui ogni donna sia finalmente libera di vivere senza paura.
Sono tanti i volti che nella cronaca di questo anno si sono susseguiti e per cui ci siamo trovati a pensare almeno una volta Oh no, non di nuovo. Parlare di violenza sulle donne significa raccontare le storie che spezzano il cuore e risvegliano una dolorosa consapevolezza, perché questo fenomeno non si sta arrestando.
Prendiamo il caso di Giulia Tramontano, una giovane donna il cui destino è stato segnato da un compagno che ha scelto la strada più vile e crudele. Nei mesi precedenti al suo omicidio, Giulia era già una vittima silenziosa: il suo compagno aveva cercato di avvelenarla. Un gesto di una crudeltà inimmaginabile che avrebbe dovuto essere un segnale chiaro, una bandiera rossa di pericolo imminente. E invece, una volta portato in tribunale, l’assassino ha sostenuto che l’omicidio non era stato premeditato, che l’intenzione non era chiara e definita. In sostanza, che non aveva mai pensato di compiere quel gesto. Queste affermazioni, accolte o discusse come se un tentativo di avvelenamento potesse non implicare violenza premeditata, lasciano l’amaro in bocca. Giulia non aveva solo una vita davanti a sé, ma portava anche in grembo un bambino, eppure tutto questo non è bastato a proteggerla dalla mano del suo carnefice.
L’omicidio di Giulia Cecchettin ci costringe a un altro esame di coscienza come società. La motivazione che ha spinto l’assassino, Filippo Turetta, a compiere l’ennesimo atto di femminicidio non è altro che un egoismo devastante, un narcisismo che si nutre della convinzione che la propria felicità sia più importante della vita di un’altra persona. Giulia aveva deciso di allontanarsi, di non volere più quella relazione, di riprendersi la sua libertà e la sua serenità. Aveva tutto il diritto di compiere quella scelta. Ma per Turetta il rifiuto rappresentava la privazione della propria idea di felicità, una ferita nell’orgoglio insopportabile. Quella convinzione, che una donna possa e debba essere l’oggetto di realizzazione della felicità di un uomo, diventa troppo spesso una giustificazione insidiosa, un pretesto per atti di violenza estrema. E così, Giulia è stata uccisa non per amore, ma per vendetta mascherata da amore infranto, per la convinzione che una donna non possa e non debba in fondo decidere per sé.
Le storie di violenza si moltiplicano, diventano eco in una società che fatica a capire quanto sia importante parlare di consenso, di rispetto, di dignità. Lo stupro di gruppo a Palermo è un altro esempio tragico di questa incomprensione. Ci mostra non solo la brutalità dell’atto, ma anche la distorsione con cui la violenza viene percepita. Esistono video che mostrano come la vittima abbia implorato di smettere, prove innegabili della mancanza di consenso, eppure c’è chi ha tentato ancora una volta di sminuire l’accaduto. In una cultura che spesso dipinge le vittime come responsabili, come provocatrici, il corpo di una donna finisce per essere trattato come un oggetto su cui si possa esercitare dominio, indipendentemente dalla volontà della persona che lo abita.
Oggi, che siamo nel 2024, ci troviamo ancora a discutere di violenza sulle donne perché il cambiamento è lento, le consapevolezze tardano ad affermarsi, e il dolore delle vittime viene continuamente oscurato da narrazioni distorte. Si invoca il “raptus”, la perdita di controllo momentanea, come scusa per chi uccide. Si normalizzano atti che dovrebbero essere immediatamente riconosciuti come abusi, e si lascia che il trauma delle sopravvissute diventi un fardello che poche hanno la forza di portare senza il peso di una colpevolizzazione sociale ingiusta.
La violenza sulle donne non è diminuita. Rimane radicata nelle relazioni umane, permea istituzioni e norme sociali che faticano a tutelare chi soffre e a condannare, prima che a punire, chi agisce da carnefice. Finché il dolore e la paura delle vittime non diventeranno una priorità in ogni ambito della società, la Giornata contro la violenza sulle donne rimarrà essenziale, uno spazio di memoria e di speranza, uno stimolo a non dimenticare, a non smettere mai di lottare per un mondo un po’ più corretto.
Le storie di Giulia Tramontano, Giulia Cecchettin e la sopravvissuta dello stupro di Palermo sono testimonianze di questa lotta. Non dimentichiamole. Non permettiamo che il loro dolore resti inascoltato. Perché parlare di violenza sulle donne non è un privilegio del passato, ma un dovere del presente. E non è con l’inasprimento delle pene, intervenendo perciò quando il danno è già stato commesso, che si otterranno dei risultati concreti; è necessario ri-educare una nazione intera, insegnando il rispetto e la parità tra i generi fin dalla scuola dell’infanzia. Si deve agire inoltre sull’opinione pubblica, anche usando un linguaggio che tenga conto dei mutamenti della società. È inammissibile, per esempio, che si usi ancora il termine “patria potestà” nell’errato convincimento che l’uomo abbia il potere indiscusso di prendere decisioni per la famiglia, e non di “potestà genitoriale”, che mette sullo stesso piano diritti e doveri di entrambi i genitori e introdotta ben 50 anni fa (nel 1975).
Se “la penna ne uccide più della spada” l’uso corretto – e non di facciata – delle parole può fermare la violenza più delle sbarre di una prigione.
Biancamaria Massaro ha scritto numerosi articoli per Nero Cafè sulla violenza contro le donne, il bullismo e il satanismo, che potete leggere a questo link.
(Beatrice Tibaldini, con la collaborazione di Biancamaria Massaro)