Dossier adolescenti e social: il fenomeno delle Challenge

Durante la primavera 2017, in Italia è esplosa la paura della Blue Whale Challenge, una sfida tra adolescenti in cinquanta passi “controllati” da un curatore più adulto, nata sui social russi che si sarebbe dovuta concludere lanciandosi da grandi altezze.
In realtà, già il 3 giugno del 2016 Anna Zafesova aveva parlato di Blue Whale (Balena Blu) e di “istigazioni social al suicidio” in Russia, minimizzando però molto la questione, mentre il 18 febbraio del 2017 il quotidiano La Repubblica se ne è occupato nell’articolo della corrispondente Rosalba Castelletti intitolato “Quei gruppi sul social istigano i teenager al suicidio. È allarme in Russia”. Ne propongo un brano:

Farfalle che vivono un giorno. Balene che si suicidano. E un nome, Rina, quello di una sedicenne della Russia orientale che nel novembre 2015 si gettò sotto a un treno dopo aver scritto “Miao, addio” pubblicando il suo ultimo selfie. Sono questi i segni distintivi dei “gruppi della morte” che istigherebbero i teenager al suicidio su VKontakte, il social network più diffuso in Russia.

Per qualche mese la notizia è apparsa ogni tanto su tv, giornali e social, finché è esplosa durante la puntata del 14 maggio 2017 del programma televisivo Le Iene, in cui si cita perfino un caso italiano, quello di un quindicenne che il 4 febbraio si sarebbe gettato dal palazzo più alto di Livorno: il fatto è avvenuto davvero, ma il 6 marzo ed è estraneo alla Blue Whale. Nonostante fosse perciò fin troppo facile sbugiardare il servizio di Viviani dal nome “Suicidarsi per gioco” – uno dei giovani russi che si sarebbe tolto la vita nel 2016, per esempio, si è rivelato essere un cinese che si era ucciso nel 2010, mentre il doppio suicidio di due amiche è un evidente montaggio – molti lo presero come vero e così partì il tamtam social-mediatico e lo spirito di emulazione ha cominciato a mietere vittime.
Giovani che si sono uccisi? No, ragazzi che hanno compiuto i primi passi, fermandosi a quelli che prevedevano l’ascolto di musica particolare e la visione di film horror – anche se alcuni hanno compiuto atti di autolesionismo – e la condivisione delle proprie esperienze.
Al momento, nonostante le diverse denunce, in Italia non risulta nemmeno un caso di suicidio ascrivibile alla Blue Whale.
Come tutte gli allarmismi mediatici, sebbene all’inizio sembrasse più persistente di altri, nell’estate del 2017 anche quello sulla Blue Whale si è affievolito ed è stato del tutto dimenticato nel 2018. Poco dopo è esploso il fenomeno Momo a ravvivare le preoccupazioni degli adulti, pronti a scambiare una variante della vecchia Catena di Sant’Antonio in salsa horror-adolescenziale in qualcosa di preoccupante e disturbante. Momo nel 2019 è tornato sotto la luce dei riflettori – o dei like dei social: dovremmo dire così, adesso? – grazie a Kim Kardashian che ne ha parlato sul suo profilo Istagram. Da madre preoccupata, ha implorato youtube di cancellare i video sulla «figura raccapricciante, che istruisce i bambini a uccidersi … e li intimidisce per mantenere il segreto del video coi genitori».

Alcuni fatti di cronaca dell’autunno del 2018 spaventarono l’opinione pubblica perché sembrava si stesse diffondendo una “nuovissima” sfida in cui i ragazzi si bagnavano il corpo con liquidi infiammabili e si davano fuoco, la Fire Challenge. Basta fare però una rapida ricerca su youtube per scoprire che esistono video in cui i ragazzi “giocano con il fuoco” almeno dal 2014.

Verso la fine dell’estate del 2019 è esplosa la Samara Challenge: chi voleva partecipare, doveva vestirsi di bianco e indossare una lunga parrucca nera e farsi riprendere/riprendersi mentre di notte terrorizzava le persone. Samara è il nome dell’inquietante fantasma di The Ring, remake americano del film giapponese Ringu di Hideo Nakata, in cui si chiama Sadako. Ebbene, tutto è nato per promuovere l’uscita di Sadako, pellicola diretta sempre da Nakata, mentre veniva presentato in anteprima al Fantasia International Film Festival di Montreal (Canada). Un’operazione di marketing e bravate per emulazione, innocue fino alla comparsa di coltelli veri – o, nel buio, immaginati come tali – che hanno davvero spaventato il pubblico, provocando comprensibili reazioni violente.
Qualcosa di simile era accaduto nell’autunno 2014, quando alcune persone andavano in giro con maschere da pagliaccio e spaventavano – e in qualche caso malmenavano – innocenti passanti, ispirati dall’ennesimo video di Youtube in cui vittime e carnefici erano però attori: filmare atti di violenza simulati è detto happy slapping, “schiaffeggiamento allegro”, ma non sempre chi vi assiste è consapevole della finzione.

Più preoccupante è la Blackout Challenge, una sfida a riprendersi mentre ci si provoca il soffocamento per provare emozioni forti fino a volte a morire, non per scelta ma per imperizia: nei casi di impiccagione autoindotta, infatti, si può svenire, perciò, privo di sensi, il soggetto non può più liberarsi, finendo con l’uccidersi. La piccola Antonella Sicomero, di cui ho parlato nell’introduzione di questo dossier, dovrebbe essere morta mentre si faceva un video del genere.

A febbraio del 2020, prima che il Covid-19 catalizzasse su di sé le attenzioni di tutti i social, su Tik Tok apprvero video in cui due ragazzi affiancano un terzo e, mentre questo salta, gli fanno uno sgambetto a mezz’aria: il malcapitato cade in malo modo provocandosi lesioni di diversa entità. La Skullbreaker Challenge – in America Latina, da dove sarebbe partita, si chiama Rompecraneos – non è perciò uno scherzo e nemmeno un gioco: in caso di danni gravi, costituisce un vero e proprio reato.

Da quando è possibile fotografarsi – ormai anche filmarsi – con un telefonino, esiste il fenomeno dei Kilfie, ovvero dei selfie fatti in posizioni o situazioni estreme, che immortalano a volte suicidi involontari: una sorta di sfida a postare se stessi mentre si affronta un pericolo inutile, a volte mortale: suicidio dovuto a stupidità e voglia di like. L’evoluzione della #ShellOn è preoccupante e dimostra come, una volta lanciata la sfida, essa viva di vita propria, fuori dal controllo del suo ideatore: nata come sfida a mangiare il pranzo con il guscio (come uova intere – che possono essere “condite” con l’invisibile salmonella – o frutta non sgusciata, piena di pesticidi tossici), si è trasformata nell’ingurgitare alimenti con il proprio involucro, fatto perciò di plastica, cartone o tetrapak, rischiando il soffocamento al momento e tumori nel futuro.

Altre Challenge sono semplici e/o divertenti prove di abilità, mentre altre dimostrano che l’incoscienza e la stupidità umana non hanno limiti. Anche in tempo di pandemia si sono create infatti sfide potenzialmente mortali e virali anche in senso letterario, come la Covid o Coronavirus Challenge, “lanciata” dall’aspirante influencer americana Ava Louise a marzo 2020, che prevedeva di leccare i servizi igienici pubblici.

(Biancamaria Massaro)