Femminicidio e Facebook: quando mettere “like” diventa un atto di violenza

“anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.”
Fabrizio De André, Canzone del maggio (1973)

La tragedia del piccolo Loris non dovrebbe farci dimenticare l’ennesimo femminicidio accaduto pochi giorni fa e che già non fa più notizia. Almeno fino al prossimo caso in cui un uomo ucciderà una donna perché la ritiene un oggetto.
I più giovani difficilmente ricorderanno il film Sotto accusa del 1988, in cui Sarah Tobias, interpretata da Jodie Foster, viene violentata su un flipper nel bar in cui lavora da tre ragazzi, il tutto tra l’approvazione generale degli altri clienti. Il procuratore Kathryn Murphy accetta inizialmente un patteggiamento per lesioni colpose, minimizzando l’accaduto. Sarah però la convince a riprendere in mano il caso, portando di nuovo in tribunale, e facendo condannare, gli stupratori e gli uomini che, avendo assistito compiaciuti alla violenza sessuale invece di fermarla, li avevano incitati. Morale: chi approva e non impedisce la violenza sessuale, fisica e psicologica sulla donna è a sua volta colpevole.

A mio modesto parere, ma spero anche di coloro che leggeranno questo articolo, dovrebbero essere incriminati per incitamento al femminicidio tutti coloro che hanno messo “like” al post che Cosimo Pagnani ha pubblicato sul suo profilo facebook – parole sue che mi fa orrore solo riportare: “Sei morta troia” – per comunicare al mondo che aveva ucciso la moglie Maria D’Antonio. In particolare investigherei tra quelli che lo hanno fatto dopo che la notizia della morte della donna era data per certa e che hanno perciò approvato l’accaduto. Molti si difenderanno sostenendo che è stata una leggerezza, che non pensavano di fare del male, facendo finta di ignorare che l’uomo ha ucciso Maria mentre la loro figlia lo implorava di smetterla, una bambina di otto anni che si ritrova adesso orfana di madre e che ha visto il padre accoltellarla a morte: dopo aver messo “mi piace” al post, si ha diritto a difendersi dietro la parola “leggerezza”? Né, mi auguro, anche per questo caso si tirerà in ballo il raptus per giustificare l’assassino.

Tutto questo a una settimana dalla Giornata Mondiale Contro la Violenza sulle Donne, che Nero Cafè ha ricordato con un articolo.

A quelli che non credono che si sarebbe dovuto inserire il reato di “omicidio di una donna in quanto donna”, rispondo che si dovrebbe allora combattere tutti insieme per introdurre il reato di “omicidio di una persona in quanto considerata una cosa dal carnefice che ritiene di avere su di lei diritto di controllo e possesso”. Risolveremmo così il problema della contestata definizione di femminicidio che ho riportato e che in qualche modo attribuisce “colpe”, o almeno responsabilità, alla donna, accusata o di vestirsi in modo da esibire troppo la sua femminilità e provocare l’uomo al punto da “costringerlo” a violentarla o di non accontentarsi più di essere brava moglie e madre e di mettere in discussione la virilità del proprio uomo.

Sì, perché la violenza sulle donne non è un problema delle donne ma degli uomini, almeno di quelli così insicuri di loro stessi da non voler considerare loro pari l’altra metà del cielo. Solo ribaltando la prospettiva – ed educando gli uomini a considerare la violenza una debolezza e non una prova di forza – si otterrà qualche risultato; non certo mettendo la donna all’interno di una gabbia legale che la considera più simile a un panda da proteggere che a una persona con uguali diritti e doveri dell’uomo.

La redazione di Nero Cafè rimarca l’impegno contro il femminicidio e ogni tipo di violenza. Ma se lo urliamo tutti insieme ci sentiranno di più. Vi invitiamo dunque a condividere il nostro mantra su tutti i social, accompagnandolo all’hashtag #NoViolenzaSulleDonne e ‘taggandoci’:

Basta con il raptus: Non è amore non è sesso, ma bisogno di possesso! 

Nota: Per non fornire pubblicità gratuita all’omicida, abbiamo scelto di non inserire l’immagine con il post “incriminato”.

(Biancamaria Massaro)