Le maschere dei serial killer nel cinema e nella realtà

Gli assassini seriali cinematografici – sia che appaiano come del tutto umani, sia quando presentino caratteristiche sovrannaturali o perfino quando incarnino veri “mostri” – indossano spesso una maschera. Possono farlo per nascondere le proprie fattezze, a volte più raccapriccianti del travestimento scelto, o per motivi psicologici ma, quale che sia il motivo, di sicuro non rimangono impressi nella mente dello spettatore per il loro reale aspetto, che a volte resta perfino sconosciuto. D’altronde, ci troviamo di fronte a film che sono “sospesi” tra il thriller e l’horror puro, perciò lo scopo del regista è soprattutto quello di spaventare, anche facendo leva su paure più comuni di quanto si creda, come quella dei pagliacci.
I serial killer reali, invece, sono molto più semplici e pratici: tranne rare eccezioni, preferiscono farsi vedere bene da chi uccidono, (ri)affermando la propria identità proprio quando esercitano potere e controllo sulle loro vittime. Per non essere riconosciuti da eventuali testimoni o passare senza problemi davanti a una telecamera, al massimo fanno ricorso a un banale passamontagna, elemento indispensabile nel “kit” degli stupratori che diventano assassini  per caso e/o divertimento.

Ogni anno esce almeno uno slasher movie in cui il mostro di turno uccide con espedienti sempre meno originali vari giovani malcapitati, spesso studenti che nascondono un “oscuro segreto/orrida colpa”, che porta lo spettatore a volerli vedere puniti, come in I Know What You Did Last Summer del 1997 e i due seguiti (1998, 2006).
Interessante anche il fenomeno delle pellicole home invasion, in cui un gruppo di persone travestite si diverte a fare pezzi coppie o famiglie nelle loro stesse case, come succede in The Strangers del 2008 o Preservation del 2014. Di solito gli assassini arrivano e uccidono senza motivo, scelta stilistica sconcertante per le prime pellicole ma che, alla lunga, appare come ripetitiva e stancante. Yor’re Next del 2011 risulta perciò piuttosto piacevole e originale perché ricorda al pubblico che il denaro è un ottimo movente.
Più interessante la trama della saga di The Purge, iniziata nel 2013, in cui, in un futuro distopico all’apparenza perfetto, il Governo degli Stati Uniti consente ai cittadini una notte durante la quale tutte le attività illegali diventano legali, compreso l’omicidio. Uomini dall’aspetto e i modi “per bene” in ogni altro giorno dell’anno, si camuffano per l’occasione e possono anche assediare la casa dei vicini per ucciderli.

Anche i mostri si aggiornano e colpiscono in Rete, come nel caso di Smiley del 2012, in cui l’assassino ha una maschera con un lungo sorriso scolpito da una ferita e due tagli verticali come occhi: il killer compare quando si scrive su Internet a una persona per tre volte “I DID IT FOR THE LULZ”: LULZ” non è solo il plurale del più noto “LOL”, ma ne cambia in parte il significato, assumendo una connotazione negativa: serve, infatti, per commentare l’azione di chi si diverte alle spalle di qualcuno, o quella di chiunque sposi un’idea diversa, come fanno i “Troll” o i “leoni da tastiera”.

ATTENZIONE AGLI SPOLIER!
Dal 1974, nella saga infinita di The Texas Chain Saw Massacre, Leatherface (Faccia di Cuoio) ci terrorizza con una maschera fatta di pelle umana che nasconde un volto reso ancor più mostruoso dalle deformazioni dovute a una precedente malattia facciale. Il personaggio è ispirato al necrofilo assassino Ed Gein che, oltre a realizzare arredi per la casa in pelle e ossa umane, si cuciva vestiti con lo stesso macabro materiale.
Gein ha influenzato più di un assassino cinematografico, da Norman Bates di Psycho (1959) a Buffalo Bill di The Silence of the Lambs (1991), solo per citare i più famosi. A Leatherface, il regista Tobe Hooper ha fatto indossare ben tre tipi di maschere differenti – “Pretty Woman”, “Old Lady” e “Killer” – fatto che rende l’assassino, che non riesce neanche ad avere un’identità fittizia “stabile”, ancora più disturbante. E spaventoso.

Michael Myers ci avrebbe spaventato così tanto se si fosse nascosto dietro le sembianze di un pagliaccio – idea, come vedremo, sfruttata in molti altri slasher movie – come era stato ventilato tra le prime ipotesi?
Non si sa. Di sicuro, John Carpenter nel 1978 in Halloween è riuscito a creare un serial killer iconico, preferendo dipingere di bianco e allargare le cavità per gli occhi della maschera di William Shatner nei panni del capitano Kirk della serie Star Trek: le modifiche hanno reso il volto inespressivo, irriconoscibile, anonimo e, allo stesso tempo, indimenticabile. Un film costato poco più di trecentomila dollari, incassò così quarantasette milioni, ebbe millemila seguiti, imitazioni e perfino un reboot. Molto utile creare un serial killer che non muore mai in modo definitivo e che è facile mostrare sempre con lo stesso aspetto, identificandolo con un travestimento e non con un attore che invecchia.

Jason Voorhees è la dimostrazione di come un personaggio viva di vita propria, sopravviva e uccida in barba al suo autore… e gli porti pure fortuna, fama e denaro.
Jason, infatti, nel primo Friday the 13th del 1980, diretto da Sean S. Cunningham, è solo una vittima innocente, un ragazzo lasciato affogare per la negligenza di alcuni animatori nel lago dove è costruito un campeggio, il Camp Crystal Lake. Alla fine, infatti, si scopre che è la madre a uccidere per vendicarlo, ribaltando in qualche modo la trama di Psycho. Nelle intenzioni dello sceneggiatore Victor Miller, la scioccante rivelazione avrebbe dovuto porre fine alla storia; intervenne però Tom Savini – futuro regista, ma qui “solo” in qualità di truccatore e curatore degli effetti speciali, che aveva già collaborato con le stesse mansioni per George Romero – il quale suggerì di scioccare il pubblico facendo apparire un ragazzo dalle sembianze cadaveriche, lo stesso Jason, che trascina nel lago Alice, l’unica superstite. Quella che doveva essere solo una trovata geniale, trasformò, negli episodi successivi della saga, la storia di una mamma assassina ma umana in quella di un’altra creatura immortale come Michael Myers, con grande disappunto del regista e dello sceneggiatore che abbandonarono il progetto.
Nel film d’esordio della saga, Jason all’inizio è solo una sorta di anonimo morto vivente, vestito con una camicia a quadri e dei jeans, mentre nel secondo capitolo indossa un dimenticabile sacco di juta. Solo nel terzo film indosserà la maschera da hockey per cui tutti lo (ri)conosciamo e diventerà quell’icona horror che finisce perfino nello spazio nel corpo di un cyborg, non prima però di aver combattuto contro quel pedofilo assassino e altrettanto restio a morire di Freddy Krueger
Da notare che anche per il cannibale Hannibal Lecter si è ricorsi all’uso di una maschera da hockey, seppur modificata, ma nel suo caso si tratta di una sorta di museruola che dovrebbe impedirgli di mordere. Anthony Hopkins, però, riesce a essere molto più spaventoso senza, proprio come Anthony Perkins nei panni del timido Norman Bates è più “disturbante” che in quelli della madre… Quando un attore si cala in modo così intenso e riuscito nel personaggio, l’addetto al trucco può cambiare mestiere.

Anche in narrativa le maschere possono avere il loro perché, quando si parla di thriller e horror, sia che siano maschere vere e proprie sia che si tratti di un espediente per “festeggiare” Carnevale, o anche entrambi: è questo il caso della raccolta di racconti edita da Nero Press Edizioni, A Carne(m)ale ogni scherzo vale, che sarà presente nei giorni 1 e 2 marzo prossimi al Defrag club a Roma, durante l’evento Visioni futuribili – Carnival edition, organizzata dal collettivo Crush.

Tornando ai film sui serial killer mascherati, la saga cinematografica di Scream – il primo è uscito nel 1996 e l’ultimo, almeno per ora, è previsto per fine mese – merita di essere trattata a sé in quanto rappresenta il perfetto anello di congiunzione tra realtà e fantasia: si ispira al serial killer americano Danny Rolling, tristemente noto per aver massacrato almeno quattro studentesse, che a sua volta affermò che aveva agito così perché in lui vi era il demone-assassino dell’Esorcista III, chiamato Gemini, che richiama lo Zodiac Killer, altro assassino seriale americano, di cui non si conosce ancora l’identità.

(Biancamaria Massaro)