La ragazza della porta accanto, di Jack Ketchum
Titolo: La ragazza della porta accanto
Autore: Jack Ketchum
Editore: Gargoyle Books
Anno: 2009
Pagine: 296
Prezzo: libro fuori catalogo
Sinossi
America rurale, anni Cinquanta. David ha 12 anni e incarna il prototipo dell’adolescente medio. Frequenta gli altri ragazzi del vicinato e comincia a sviluppare un certo interesse per il sesso femminile. Quando le sorelle Meg e Susan Loughlin si trasferiscono a vivere nella casa accanto, David è felice dell’opportunità di ampliare il proprio giro di amicizie, anche se Meg, che incontra per prima, è un paio d’anni più grande. I genitori delle due ragazze sono rimasti uccisi in un incidente d’auto e le sorelle Loughlin sono state affidate alla vicina di David, Ruth. Ma Ruth, in apparenza ottima madre di famiglia, nasconde una vena di sadismo e alienazione, che sfoga dapprima sottoponendo le ragazze a percosse sempre più violente e dolorose, poi dando vita a una serie di torture fisiche e psicologiche di cui David e gli altri ragazzi del vicinato divengono testimoni e, in qualche modo, complici inconsapevoli. La polizia non prende sul serio le denunce di Meg: l’unica speranza per lei e la sorella è nell’aiuto dell’amico David. Riuscirà a salvare le sorelle prima che sia troppo tardi?
La recensione di Nero Cafè
Avevo acquistato questo libro molto tempo fa, poi l’avevo quasi dimenticato. L’altro giorno, però, mi è tornato in mente grazie a un messaggio pubblicato da un mio contatto Facebook, così decido di riesumarlo. Ancora non so dirvi, però, se abbia fatto bene o abbia fatto male.
Prima dell’analisi, due informazioni. Primo: Jack Ketchum è lo pseudonimo di Dallas Mayr. Secondo: La ragazza della porta accanto altro non è che la rielaborazione romanzata di un fatto di cronaca nera purtroppo realmente accaduto. Non vi dirò più di tanto, in quanto rischio di parlarvi di situazioni presenti nell’opera, ma qualora voleste approfondire potete cercare sul web “Sylvia Likens”. Troverete più di quanto vorreste.
Dire che il romanzo è scorrevole e coinvolge il lettore è dire poco: il lettore è dentro il romanzo, vive e assiste alle vicende, è fisicamente uno dei protagonisti. Questa profonda partecipazione è, a tratti, intensificata dalla narrazione in prima persona, che ha però anche la possibilità di evitare al pubblico i passaggi peggiori; Ketchum stesso, infatti, ha il buongusto e il buonsenso, verso i capitoli finali, di aggirare l’ennesima sessione di tortura, che avrebbe rischiato di spezzare davvero “qualcosa” a quel punto della narrazione. Complice di sì tanta scioltezza è anche lo stile, scarno, brutale e maledetto, poche parole che dicono quello che devono e feriscono il pubblico laddove lo scrittore si è prefissato di colpire. Frasi essenziali, lessico colloquiale che tuttavia dimostrano la grande padronanza linguistica di Ketchum.
L’opera è la confessione scritta da un David adulto in relazione ai fatti avvenuti quando era un ragazzo, indi si svolge su piani temporali differenti, tuttavia risulta lineare e immediato: si apre e si chiude con le considerazioni dell’uomo, mentre il corpo dell’opera è tutta dedicata al ragazzino dodicenne e ai suoi demoni. L’ambientazione è resa perfettamente: si tratta dell’America anni Cinquanta e l’autore riesce a dipingerla con brevi accenni descrittivi e profondi dettagli psico-comportamentali della società. I personaggi sono, purtroppo, fin troppo credibili, ben realizzati, a volte coerenti e spesso contraddittori come qualsiasi essere umano (soprattutto se deviato).
Da molto tempo, forse da anni, desideravo leggere un libro che mi prendesse a schiaffi e mi rivoltasse lo stomaco. Be’, non ho disperato e l’ho trovato.
Difficile poter dare un giudizio su quest’opera. La ragazza della porta accanto racchiude in sé tutto: orrore, psicologia, coscienza, tensione, emozioni. La cosa per me stupefacente è che Ketchum non inventa niente di nuovo, niente, riproponendo archetipi narrativi (un tragico incidente d’auto, la perdita dei genitori, il trasferimento delle ragazze) e poi – sbam! – capovolge tutto, fa succedere l’inimmaginabile nonché ciò che nessuno vorrebbe mai accadesse, né in un libro, né in un film né – tanto più – nella realtà. La sua penna è spietata, morbosa, racconta i fatti nudi e crudi, senza nemmeno pensare di edulcorarli. Ho letto, a riguardo, che ha ricevuto il biasimo sia della critica sia dei lettori proprio per questa sua linea narrativa e che qualcuno è arrivato a dubitare persino della sua sanità mentale. Lo stesso Ketchum, in una nota di chiusura, spiega tra le righe il perché si proponga al pubblico con questa ferocia narrativa: perché lui ha paura della malvagità degli esseri umani, la detesta e lo ripugna. Lui esorcizza il male narrandolo, sbattendolo in faccia alla gente che magari non legge i giornali o liquida le notizie con “a volte succede”. Lui i fatti ve li racconta come sono accaduti, non ve li risparmia (anche se, in alcuni passaggi, li salta a piè pari, conscio che lì sì, scadrebbe nel patologico) cosicché nessuno possa arroccarsi dietro la scusa di “non sapere” o “non credere che sia andata proprio così”. Ketchum ci schiaffa sul muso la follia e la perversione umana e noi no, non abbiamo più scuse per rifiutarla.
Comunque, come dicevo prima, non è una lettura semplice. È una lettura che fa male, tanto. Che disgusta, profondamente. È una lettura che ti prende a cazzotti l’anima e lo stomaco, che ti fa venire voglia di gridare. Ti fa odiare i personaggi (tranne le vittime, ovvio), ti fa odiare il genere umano. Ti fa venire anche voglia di chiudere il libro e non aprirlo mai più. In alcuni passaggi io stessa mi sono sentita disturbata, infastidita nella mente e nelle viscere. Quindi no, non è una lettura per tutti. È per stomaci forti e per menti salde (o insane).
La valutazione, per me, è difficile. Probabilmente, assieme a Figlio di Dio, di Cormac McCarthy, è l’unico elaborato per me in grado di raccontare senza veli il male che infetta l’essere umano. Un male perpetrato solo per il gusto di farlo. Un male che, come scoprirà chi arriverà all’epilogo, si può combattere soltanto col male.
Estratto:
Parlate con la mia seconda moglie. Lei lo sa, o per lo meno crede di saperlo.
Dice che una volta, quando aveva diciannove o vent’anni, si trovò in mezzo a una lotta tra due gatti – il suo e quello del vicino – e uno di loro le si scagliò contro, arrampicandosi su di lei come se fosse un albero e lasciandole graffi e sfregi indelebili su cosce, seno e pancia. Dice che si spaventò così tanto che cadde contro l’antica credenza Hoosier di sua madre, rompendo il piatto in ceramica e lacerandosi 15 centimetri di pelle all’altezza delle costole, mentre il gatto, tutto denti, artigli e furia incontrollabile, scendeva giù lungo il suo corpo. Pare le abbiano messo 36 punti, ed ebbe la febbre per giorni.
La mia seconda moglie dice che quello è il dolore.
Quella donna non sa proprio un cazzo.
Valutazione: quattro coltelli e mezzo.
(Tatiana Sabina Meloni)