La mostra delle atrocità, di J.G. Ballard
Titolo: La mostra delle atrocità
Autore: J.G. Ballard
Editore: Feltrinelli Editore
Anno: 1970
Pagine: 195
Prezzo: 6,99 euro (ebook) 9,00 euro (cartaceo)
Sinossi
L’opera che ha consacrato Ballard autore di culto, formidabile visionario, profeta dei destini del mondo. Un’opera totale che fonde la forma del romanzo, le cadenze del saggio e un apparato di note ricco come un romanzo nel romanzo, come una lucida summa delle icone della contemporaneità. Protagonista un uomo dal carattere sfaccettato e dai molti nomi (Travis, Talbot, Traven, Tallis, Talbert, Travers), e intorno (o dentro di lui?) un universo stravolto e artificiale: celebrità anatomizzate, fantasie oniriche e libere associazioni, crudeltà e pornografia, civiltà e inferno. “Qual è il reale significato della morte di Marilyn Monroe o dell’assassinio di Kennedy? Come agiscono su di noi a livello neurale, a livello dell’inconscio? Questi eventi dei media, il suicidio della Monroe, l’assassinio di Kennedy, l’elezione di Reagan (riportata nel libro quindici anni prima dell’evento reale) hanno qualche significato nascosto nella nostra mente, influenzano la nostra immaginazione secondo modalità impreviste?” (J.G. Ballard)
La recensione di Nero Cafè
Parlare di un libro senza un genere preciso, senza una struttura precisa e senza una connessione narrativo-espressiva non è facile, in quanto chiunque può vederci tutto o niente. Quindi apro la recensione dicendo che, oltre a essere senza ombra di dubbio un romanzo fortemente sperimentale, esso è anche una raccolta di racconti che spaziano dalla narrativa alla fantascienza, dall’horror all’opera di denuncia, dallo splatterpunk allo psichedelico, il tutto caratterizzato da tinte violente ed erotiche.
La lettura non è per niente fluida e in alcuni punti è davvero molto ostica. In più occasioni sono stata tentata di chiudere il libro, perché proprio non riuscivo a raccapezzarmi più nel groviglio di situazioni tra loro sconnesse, tuttavia sono riuscita ad arrivare sino alla fine. Per quanto mi riguarda, la difficoltà d’approccio deriva sia dalla destrutturazione dell’opera, dalla sua mancanza di trama (se ne ha una, ho davvero difficoltà a ricostruirla), sia per lo stile che varia da racconto a racconto e, spesso, da sottocapitolo a sottocapitolo. Il lettore, in pratica, viene sbalzato da un evento all’altro, senza un filo logico, senza una connessione logica che non siano schizofrenia e sesso. È un’opera d’autocompiacimento stilistico dell’autore, che tuttavia riesce comunque a delineare la morbosità della società (degli anni Settanta, ma soprattutto attuale) per la violenza e, appunto, il sesso; eppure, nonostante le tematiche modernissime e un quadro crudo che si sposa benissimo con le richieste artistiche d’oggi, per me l’opera manca di una qualità fondamentale, ovvero l’empatia nei confronti del lettore. Chi legge, infatti, riesce a figurare fin troppo bene incidenti di auto, orgasmi e paranoie, ma non riesce a legare né con i personaggi (che sono caratterizzati davvero pochissimo sia sotto l’aspetto psicologico sia sotto quello dialogico) né riesce in qualche modo a proiettarsi nella realtà ballardiana; questo, sempre a mio avviso, è l’handicap più grave che un’opera possa subire. Di contro, ho amato lo stile, a tratti ampolloso sino all’eccesso, a tratti eccessivamente brutale e confesso che è stata proprio questa altalena stilistica a farmi terminare un romanzo che, altrimenti, non credo sarei riuscita a finire.
Solo dopo (non dopo averlo chiuso, ma dopo qualche ora o giorno) ci si interroga su cosa voglia veramente dire questo romanzo e penso che ognuno lo intenda un po’ a modo suo. Io credo che Ballard abbia voluto mettere il lettore davanti a un’ovvietà socio-narrativa che, però, ovvia non è: chi si assuefà alla pazzia e alza l’asticella del “livello di tollerabilità”, va avanti; chi non vi riesce, fugge. E, indipendentemente dall’assuefazione o dalla fuga, il significato di tante situazioni, reali o letterarie, deve rimanere ignoto ai più.
Non posso né consigliare né sconsigliare la lettura di quest’opera. Se volete tentare qualcosa di allucinogeno e destrutturato, allora indubbiamente La mostra delle atrocità è un buon inizio. Sempre, però, che abbiate uno stomaco forte.
Valutazione: tre coltelli e mezzo.
Estratto
Ritornando con la memoria alla morte della moglie, Travers adesso la vedeva sotto una nuova luce, come una serie di giochi concettuali:
1) uno spettacolo teatrale intitolato “Crash”;
2) una curva tridimensionale di una nuova geometria transfinita;
3) una scultura gonfiabile di kapok lunga duecento metri;
4) una serie di diapositive di cancri rettali;
5) sei pubblicità pubblicate su “Vogue” e su “Harper’s Bazaar”;
6) un gioco da tavolo;
7) alcune bambole di carta, le alette ripiegate attorno alle aree delle ferite;
8) le “pudenda” immaginarie di Ralph Nader;
9) un insieme di livelli di rumore;
10) una raccolta casuale di frammenti di dialogo di portantini e tecnici della polizia registrati su videotape.
(Tatiana Sabina Meloni)