Hereditary – Le radici del Male
Titolo: Hereditary – Le radici del male
Regia: Ari Aster
Genere: drammatico, horror
Anno: 201
Attori: Toni Collette (Annie Graham); Milly Shapiro (Charlie Graham); Alex Wolff (Peter Graham); Gabriel Byrne (Steve Graham); Ann Dowd (Joan).
Trama
La storia di disturbi mentali che ha sempre segnato la famiglia Graham riaffiora improvvisamente alla morte della matriarca Ellen. La donna appare come una visione sia alla giovane Charlie sia a sua madre Annie, portando alla luce le insicurezze e i rancori di una famiglia apparentemente serena…
La recensione di Nero Cafè
Hereditary – Le radici del male è stato uno di quei film che mi ha colpita e non poco. A causa dell’enorme battage pubblicitario, mi ero sempre rifiutata di vederlo, temendo fosse una delle solite pellicole orribili (non perché orrorifiche, ma perché pessime) che il cinema d’intrattenimento produce (tipo The Nun – La vocazione del Male, di cui forse, un giorno, vi racconterò). Invece, stavolta devo ricredermi.
Il punto forte di Hereditary è, senza alcuna ombra di dubbio, la regia. Le riprese e le inquadrature sono mozzafiato e, soprattutto, sono innovative, non si fossilizzano sui topoi tecnici dell’horror che ci perseguitano dagli anni Settanta (che, all’epoca, erano rivoluzionari, ma dopo quasi cinquant’anni di cinema cominciano a essere abbastanza indigesti); dimenticatevi, dunque, presenze che attraversano il corridoio alle spalle del protagonista o immagini raccapriccianti che appaiono negli specchi o dietro le tende della doccia. In questo film non esistono jumpscare, ma una tensione che viene fatta salire magistralmente con pennellate di suspense e silenzi, angoli bui e drammi interiori. Hereditary è un progetto ambizioso che unisce il drammone familiare e interiore con l’intramontabile storia di fantasmi e possessioni, ma lo fa con intelligenza e, come ho già detto, con l’intenzione di non disgustare lo spettatore, bensì fargli provare quel brividino sulla pelle che tutti noi amanti del genere ricerchiamo.
Di contro, la sceneggiatura presenta alcune sbavature, soprattutto nella parte finale in cui, a mio avviso, sono stati effettuati tagli corposi per non allungare troppo un lungometraggio davvero lungo (passatemi il gioco di parole, ve ne prego… ci aggiriamo, in ogni modo, attorno alle 2 ore e 10 minuti di film), a discapito della trama che subisce alcuni buchi narrativi, colmabili comunque con un minimo di logica da parte dello spettatore. Inoltre, il finale tende a uniformarsi al filone horror e perde un po’ della magia e genialità che permeano le scene precedenti, col rischio di deludere una buona fetta di pubblico (cosa che è avvenuta, soprattutto in Italia). A favore della sceneggiatura, invece, bisogna dire che i dialoghi e i personaggi sono strutturatissimi e uno spettatore, in molti passaggi, ha l’impressione di assistere a un dialogo reale, quotidiano, piuttosto che a una recitazione cinematografica. A questo pro, non posso che spendere davvero un encomio per gli attori (il cast è davvero tosto, tutti bravissimi e assai immedesimati nella parte), con un occhio di riguardo per la superba Toni Collette (nei panni di Annie Graham) che con la sua mimica facciale, i suoi gesti e il suo trasporto risulta semplicemente agghiacciante. Altra cosa importante: la sceneggiatura propone (finalmente!) reazioni umane; i personaggi si comportano come persone normali in preda alla rabbia, al panico o allo shock (a volte così forte da paralizzarli). Nessuno fa l’eroe, nessuno è così forte e figo da affrontare un demone millenario armato di coltellino svizzero; non c’è nulla di tutto questo e, per tale motivo, i personaggi sono vivi, veri, con pregi e difetti come noi tutti.
La fotografia è, secondo me, ottima e quasi sempre naturale: se nella stanza non c’è la luce, l’inquadratura è buia; se la stanza è illuminata da una candela, la luce è ondeggiante. Di contro, come già detto, il finale del film si uniforma un po’ al filone horror commerciale e alcuni effetti speciali (che non menziono, per evitare spoiler) non mi hanno convinta del tutto; insomma, per dirla senza giri di parole, si potevano evitare o si potevano fare meglio. Splendidi, invece, i giochi di luce ed energia realizzati. Per concludere l’analisi generale, i costumi sono azzeccati e la colonna originale di Colin Stetson è semplicemente la ciliegina sulla torta.
Per quanto mi riguarda, ho trovato Hereditary davvero interessante. In primis, perché cerca di non infarcire le riprese con fantasmi incollati sullo schermo o con jumpscare prevedibili (a far spaventare con una visione improvvisa siamo capaci tutti, ma far crescere l’ansia e mozzare il respiro è prerogativa dei migliori), bensì riesce a creare disagio psicologico nello spettatore, che vive tutta la disfunzionalità della famiglia Graham. Altra chicca: qui le visioni non sono accozzaglie d’immagini senza senso che servono a fare scena e far vedere quanto è bravo il tecnico degli effetti speciali, ma sono utili a dare spessore psicologico ai personaggi e a contestualizzare determinate azioni/reazioni degli stessi.
Inoltre, sono davvero stata conquistata dalla regia. Vi faccio un esempio, senza spoilerare nulla. C’è un funerale (non vi dico di chi) e in genere i registi optano per queste soluzioni: ripresa distante e, per il cambio scena, scarrellatura laterale oppure zoomata sulla cassa che viene interrata o, ancora, allontanamento della ripresa che diviene ad ampio raggio per dare un senso di silenzio, solitudine, desolazione. Ecco, qui no. Aster riprende il funerale ad altezza uomo e pian piano la telecamera si abbassa, si abbassa sempre di più, fino a giungere ad altezza erba. E poi? E poi scende ancora, ci porta sottoterra, vediamo il terreno e le radici. “Che succede?”, pensa lo spettatore, “Cosa c’è sotto il manto erboso? L’inferno? Un cadavere?” No, cambio scena repentino e l’adrenalina che schizza alle stelle. Non sono una regista e le mie conoscenze tecniche sono limitate, ma questa scena che cosa significa? Significa che Aster si è ingegnato a scavare una buca, a curare il movimento dell’erba, cose che nel cinema moderno non si fanno più, prediligendo la velocità di ripresa all’innovazione che, senza dubbio, richiede sforzi e tempi maggiori.
Di contro, questo film ha un’enorme pecca: è prettamente americano. Non sto parlando solo di tecnica cinematografica, ma di forma mentis e, proprio per questo, rischia di non essere apprezzato dal pubblico italiano. “Perché?”, vi chiederete. Perché la mentalità americana è completamente differente da quella italiana e un italiano, nel novanta percento dei casi, non riuscirà a rinvenire l’attacco ai due punti cardini della società statunitense: il bigottismo e la famiglia, che oltreoceano viene concepita come oasi felice e intoccabile, e guai ad affermare o a dimostrare il contrario. Aster, invece, lo fa e il vero orrore che narra non è la possessione, bensì lo sgretolarsi di una famiglia problematica che deve, volente o nolente, affrontare un susseguirsi incessante di drammi personali. Per questo motivo alcune scene sono piuttosto criptiche e, a ben rifletterci, non vanno interpretate visivamente ma concettualmente, ricordando sempre che ogni situazione paranormale può avere una spiegazione logica – o meglio clinica – nella mente della protagonista.
Indubbiamente una pellicola consigliatissima, purché lo spettatore sia pronto a oltrepassare i confini della mentalità italiana e, soprattutto, porga tanta attenzione alla regia che, non mi stancherò mai di ripeterlo, porta una ventata d’aria fresca in un panorama horror stantio.
Valutazione: quattro coltelli.
Citazione
Charlie: Chi si prenderà cura di me?
Annie: Pensi che io non mi prenderò cura di te?
Charlie: Ma quando tu muori?
(Tatiana Sabina Meloni)