Il circo maledetto, di Ann Featherstone

Questo libro ha attratto il Terzo Occhio immediatamente. Copertina morbida, come fosse imbottita, bordo delle pagine nero, prezzo più che accessibile, tema accattivante, una storia a tinte fosche ambientato nella Londara vittoriana.
Ann Featherstone, l’autrice, è docente di Storia del Teatro alle università di Manchester e Londra; è, quindi, persona ben ferrata sulla mondanità dell’epoca, sugli usi e i costumi di allora.
Potremmo definire il romanzo a metà fra un giallo e un noir. C’è il mistero, l’indagine da parte del protagonista, Corney Sage, artista teatrale che non è esattamente un cuor di leone, ma che si trova suo malgrado coinvolto nell’omicidio di una giovane attrice di facili costumi. E c’è poi la storia vista con gli occhi dell’omicida, di cui non sveliamo l’identità (ma che già a un terzo del libro viene rivelata), condita da risvolti psicologici che affondano le loro radici malate nell’infanzia dell’assassino.
Il linguaggio utilizzato, con le minute descrizioni, il divagare dei narratori, i resoconti dettagliati di esperienze passate, evocano nella mente del lettore uno stile tipico del XIX secolo.
Tuttavia il romanzo, di per se stesso, a tratti risulta di difficile digestione. Innanzitutto la disposizione strutturale dei due punti di vista, quello di Corney Sage e dell’assassino. Mentre nei primi capitoli vi è la sola ottica dell’attore, a un certo punto interviene quella dell’omicida a svelare la propria identità. Vi è quindi una totale immersione nelle vicende di quest’ultimo, che finiscono quasi per farci dimenticare l’esistenza di Corney, per poi ritrovarlo verso la fine, laddove si riprende un’alternanza tra le due focalizzazioni. Di fatto, a causa di questa disposizione un po’ “a casaccio”, ci si interroga un po’ troppo spesso su che fine abbia fatto l’altro protagonista.
La lentezza, a tratti esasperante, con cui si giunge alla conclusione – la cui sorpresa nell’epilogo è, a giudizio del Terzo Occhio, fin troppo forzata – toglie quel pathos che invece si crea in alcuni momenti della narrazione.
C’è poi un altro particolare strutturale che risulta indigesto: l’alternanza – studiata – dei verbi, che passano dal classico passato remoto al presente nel corso dell’azione. Si percepisce chiaramente quale sia l’intenzione dell’autore, focalizzare determinati momenti su eventi ben precisi, così come una telecamera stringerebbe su un’inquadratura fin quasi a rallentare l’immagine; tuttavia questo escamotage non sempre funziona e, anzi, alla fine la sensazione che rimane è di mancanza di continuità, come se la vicenda subisse brusche frenate e accelerazioni senza tuttavia trasportare il lettore, ma lasciandolo lì a chiedersi che diavolo sia successo ai verbi.
Insomma, a conti fatti, pregi e difetti per un’opera che resta un libro interessante, piacevole da avere nella propria libreria, ma forse non reso al meglio delle sue potenzialità.

(Daniele Picciuti)