Janas, le fate della Sardegna

L’Almanacco del Crepuscolo riprende dalla Sardegna, una terra ricca di miti e leggende. Non potevano mancare nemmeno quelle che riguardano una delle creature fantastiche più affascinanti: le fate.

Secondo la tradizione sarda, le fate abitavano i nuraghi e i domus de janas, tradotto a volte come «case di fate». Queste erano in realtà tombe prenuragiche incavate nella roccia. Fu per via delle loro dimensioni molto ridotte che vennero associate alle minuscole creature. Le janas venivano descritte come piccole donne bellissime, dalla pelle molto delicata. Vestivano di rosso, sul capo portavano un fazzoletto ricamato con fili d’argento e al collo pesanti collane d’oro. Potevano emanare una luce così forte da poter addirittura abbagliare chi posasse su di loro il proprio sguardo.

Domus de janas

Usavano questa loro luminosità per districarsi fra i rovi, evitando di ferirsi con le spine, quando di notte si recavano a pregare nei pressi dei nuraghi.

Ciò che le caratterizzava più di qualsiasi altra cosa era però la loro doppia natura benevola/malefica. Si narra che di notte visitassero i neonati, decretandone il futuro. Se fatato nel bene, il bambino avrebbe avuto una vita gioiosa. Ma se invece fatato nel male il destino del nascituro sarebbe stato tutt’altro che roseo. Alla persona sfortunata ci si indirizzava con l’espressione: «Male vadada», che significa per l’appunto «mal fatata». Un’altra espressione – «mala jana ti hurrada» (cattiva fata ti corra dietro) – veniva invece usata per augurare disgrazia.

Nelle leggende le fate venivano spesso associate a grandi ricchezze. In alcuni casi le proteggevano gelosamente con l’aiuto delle muscas maceddas, mostruosi insetti grandi quanto una pecora, con un solo occhio e armati di un gigantesco pungiglione velenoso. Ma non era sempre così. In altre occasioni, infatti, le fate non esitavano a elargire le ricchezze a loro piacimento.

Essendo le fate di derivazione pagana, con l’avvento del cristianesimo alcune leggende vennero reinterpretate. Una storia in particolare narra di un contadino, Cabras, che si recò da una fata chiedendole di farlo diventare ricco. La fata lo ebbe in simpatia, decidendo così di esaudire il suo desiderio. Disperse sul terreno una manciata di grano. I chicchi si trasformarono subito in mucche gravide che partorendo raddoppiarono immediatamente il loro numero.

Cabras fu contento. Aveva ottenuto ciò che più desiderava. Ma la sua felicità non durò a lungo. Le mucche infatti iniziarono presto a svanire, lasciandolo di nuovo nella miseria.

Precipitato nella disperazione, il contadino decise quindi di tornare presso il nuraghe di Sinis, dove abitava la fata, chiedendole cosa poteva fare per rimediare. Lei gli disse che per impedire che le mucche svanissero era necessario che facesse con la mano destra il segno della croce sul dorso di ognuna. Lui obbedì. Così da quel giorno le mucche nere del Sinas presentano tutte una macchia bianca sulla schiena.

estratto da un disegno di P.L. Murgia

L’appellativo jana (fata) deriva probabilmente dal nome Diana, la dea legata alla notte, il cui simbolo è la falce di luna distesa. Le fate, infatti, operavano di sera, in quanto il sole avrebbe ustionato la loro pelle delicata, uccidendole.

Le piccole creature visitavano non solo i bambini ma anche gli adulti. Lo facevano sussurrando tre volte il nome della persona. Ogni loro visita, però, era in realtà un test. Alla persona venivano mostrate le loro immense ricchezze. Solo quelli che resistevano alla tentazione di rubarle venivano ricompensate. Alle altre spettava la sfortuna di vedere qualsiasi cosa toccassero tramutarsi in carbone.

Queste piccole creature ambivalenti ancora oggi popolano l’immaginazione di noi tutti. Ma non solo. Secondo le leggende, se si fa molta attenzione in alcuni posti remoti della Sardegna è ancora possibile incontrarle.

(Roberto Bommarito)

 


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