La leggenda “satanica” di Charles Manson
Nel precedente articolo abbiamo parlato della sorte toccata ai membri della Family responsabili dei delitti della Summer of Blood (Nero Press Edizioni ha pubblicato una raccolta di racconti horror in ebook ispirati a quella estate, intitolato proprio Summer of Blood, con la postfazione di Biancamaria Massaro). Analizziamo adesso come e perché è nato il mito “nero” di Charles Manson.
Manson oggi è considerato un’icona satanica e molti credono che la Family sia stata una setta di ispirazione satanica, eppure Manson si sentiva più simile a Cristo che a Satana, inoltre non voleva che i suoi seguaci credessero in qualche Divinità maligna ma a lui e all’Helter Skelter. La Famiglia, dunque, è più simile a una setta millenaristica, ovvero una che crede nell’imminente fine del mondo e che solo i “puri” – i membri stessi – saranno ricompensati, se seguiranno il loro Messia.
Sulle tecniche di una setta per reclutare nuovi adepti e legarli indissolubilmente a sé, usate forse in modo inconsapevole da Manson, e su cosa si intenda per satanismo, si consiglia di leggere Charles “Satana” Manson: demitizzazione di un’icona satanica (Nero Press Edizioni, 2014), dove il tema è trattato in modo dettagliato con esempi internazionali e italiani.
Il fondatore della Family, fin da quando si trovava in prigione negli anni Cinquanta, ha scoperto di avere la capacità di esercitare una forte influenza sulle persone. Basso di statura e mingherlino, si faceva rispettare più con le parole che con la forza, inoltre è riuscito a convincere più di uno psichiatra della sua “redenzione” e a concedergli la libertà condizionata. Ha raffinato le sue capacità di leadership interessandosi all’analisi transazionale e a Scientology, inoltre aveva imparato a memoria molti brani della bibbia, in particolare dell’Apocalisse di Giovanni. Uscito di prigione a marzo del 1967 già quasi trentatreenne, aveva l’età giusta per farsi passare quasi da “padre buono”, o almeno da fratello maggiore saggio e comprensivo. Riesce così a radunare intorno a sé tanti giovanissimi fuggiti da casa o cacciati da famiglie in cui non si riconoscono più: i genitori, infatti, sono usciti dalla Seconda Guerra Mondiale da salvatori dell’Europa ed eroici vincitori, convinti che Dio, Patria e Famiglia – rigorosamente tradizionale e “bianca” – siano gli unici ideali da trasmettere alle generazioni future; non possono accettare i nuovi ideali, la libertà sessuale, il riconoscimento dei diritti civili nella vita quotidiana, la rinuncia alla chiamata alle armi per una guerra lontana e perfino la “musica del demonio” – il Rock! – che i figli cercano e vogliono. Grazie al carisma innato e al poliedrico e atipico bagaglio culturale che si porta dietro, a Charles riesce perciò facile trovare le parole adatte per attirare le prime Charlie’s Girls e poi tutti i membri della Family.
Dopo aver passato tanto tempo in cella, probabilmente all’inizio si è lasciato davvero affascinare dalle libertà che la controcultura hippie permetteva di sperimentare ma, da delinquente navigato com’era, ha capito come piegarle ai suoi desideri e bisogni; soprattutto, ha imparato presto come usarle per legare sempre più a sé i membri della comunità che si era raccolta intorno a lui. Anche perché, come spacciatore e protettore, sapeva bene come rifornirsi di droghe e usare il sesso per i suoi scopi.
Quando, assetato di vendetta verso l’establishment che ha infranto il suo sogno di diventare famoso, decide di anticipare l’Helter Skelter, usa con i suoi seguaci frasi piene di termini come “diavolo” o “maligno”, ma solo perché sono più d’effetto. Al processo farà altrettanto, sfruttando per raggiungere la tanto desiderata notorietà proprio l’effetto che hanno tanto sul pubblico in aula che fuori. Ecco giustificate frasi come “tutte le mie donne sono streghe e io il demonio.”
Facendo suo il motto “male, purché se ne parli”, si rende protagonista di monologhi e atti eclatanti tali che, chi vuole, può sentirci “puzza di zolfo”. All’inizio, per esempio, cerca di farsi passare per vittima dello stesso establishment che lo aveva già ingannato, perciò la X che si era inciso in fronte “diventa” una croce perché, come Cristo si sente una vittima sacrificale; in prigione la croce diventerà una svastica, simbolo nazista ed esoterico per eccellenza. E abbiamo già detto che si presenta un giorno in aula con la la barba dalla forma “satanicamente” a forma di tridente.
Probabilmente, se per Manson e i suoi seguaci assassini si fosse eseguita la pena di morte prevista, oggi non parleremmo così tanto della Famiglia e del suo fondatore; le loro sanguinarie gesta sarebbero ricordate soprattutto nei testi di criminologia e in qualche libro di musica anni Sessanta come fastidiosa curiosità legata ai Beatles. La pena però è stata commuta in ergastolo e ogni sette anni possono chiedere tutti la libertà sulla parola. Se i membri della Family hanno per lo più ripudiato in carcere il loro leader e cercano il silenzio e l’oblio, per Manson ogni udienza della commissione sulla libertà di parola – o intervista che gli permettono di rilasciare – è stata l’ennesima possibilità di far parlare di sé e di pilotare il modo di farlo. A volte si metteva a ballare e/o cantare con gli occhi “da pazzo” che lo contraddistinguono (come si vede nella gif animata), altre camminava sul tavolo o atteggiandosi a “pollo”, altre ancora parlava – ed era difficile azzittirlo! – e allora si descriveva indifferentemente come “nessuno”, come innocente ambientalista o come il rasoio che all’improvviso si avvicina alla gola delle persone. Sostengono i soliti ben informati – basta una rapida ricerca in rete – che in prigione si sarebbe anche avvicinato al satanismo… pensiamo solo per confermare e aumentare l’aurea maligna. La verità ormai è sepolta insieme a lui nella tomba.
Per gli amanti dei complotti bisogna ricordare almeno alcune “diaboliche” coincidenze relative alle persone coinvolte nei fatti dell’estate del 1969. Susan Atkins lavorava per Anton LaVey, fondatore della Chiesa di Satana e amico del regista Kenneth Anger che aveva reclutato Beausoleil per il film Lucifer Rising. Anton LaVey era stato anche consulente di Polanski mentre girava Rosemary’s Baby, offrendo il suo volto – che non si vede bene, perciò potrebbe essere anche questo un altro “mito” – come quello del demonio. Bruce Davis avrebbe invece avuto rapporti con Scientology e potrebbe essere perfino coinvolto negli omicidi dello Zodiac Killer, creando così un “satanico” rapporto tra la Family, Scientology e alcuni tra i più efferati crimini americani.
La fama satanica – almeno “dark” e misteriosa – di Manson è dovuta anche e soprattutto alle falsità o imprecisioni che girano sul suo conto e sulla Family che si trovano sia in rete, in siti non sempre solo amatoriali, e perfino in alcuni testi di argomento criminologico o musicale. Tali (dis)informazioni sono poi ripetute dai media e diventano “verità”. Ecco che per molti, per esempio, l’illegittimo Man-Son si è dato da solo un cognome evocativo; la Famiglia ha cercato di strappare il feto dalla moglie del regista di un film in cui un figlio viene offerto al diavolo; il numero di morti del massacro di Cielo Drive varia da uno – la Tate – a 4 perché il povero Steve Parent se lo dimenticano quasi sempre; tra le vittime totali dell’estate del 1969 mancano spesso, oltre a Parent, Shea e Hinman; nello Spanh Ranch si sacrificavano animali a Satana, infine Manson stesso avrebbe ucciso la Tate e/o altri innocenti.
Della fama “satanica” di Manson, amplificandola e oscurandola allo stesso tempo, ha saputo farne buon uso il cantante Brian Hugh Warner, più noto con l’alias Marylin Manson che si è dato fondendo due icone americane e mondiali degli anni Sessanta: Marylin Monroe e Charles Manson. Il cantante, nell’album Portrait of an American Family ha inserito la canzone My Monkey partendo da un brano del fondatore della Famiglia. Nel 2013 Manson – Charles – ha scritto a Manson – Marylin – proponendogli una collaborazione musicale. È ancora in attesa di risposta.
Charles Manson: chiarito che non è stato un satanista, lo si può definire un assassino seriale? No, se ci si ferma alle prime definizioni di serial killer, in cui è fondamentale che il soggetto uccida personalmente almeno tre persone; sì, se si fa riferimento alle forme “atipiche” di omicidio seriale, in particolare quella che considera proprio i leader dei gruppi settari che spingono i loro seguaci a uccidere per loro conto, ovvero gli omicidi seriali per induzione nelle sette. Alla luce dei nuovi studi sul comportamento omicida seriale, sposiamo questa seconda ipotesi.
(Biancamaria Massaro)