Necromortosis, di Stefano Rossi

necromortosisQuando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra [G. Romero]

Necromortosis è una storia e la sua appendice, l’evento portante e un episodio indipendente da esso generato. Nella storia principale, a Never City, quella che doveva essere una normale consegna di una partita di stupefacenti è andata storta. È sparita la roba. Ja-Kwan e Martini sono incaricati dal boss di turno di recuperarla. Affrontano una “cavia”, assaggiatore ufficiale del gruppo, pronto a spararsi qualsiasi nuova sostanza per pochi spiccioli. Sospettato principe di aver tenuto la droga per sé. Che, prima di essere eliminato, indirizza i “recuperatori” verso il suo socio Pablo, nascosto in un manicomio abbandonato. Ovviamente, sinistro. La sorpresa che attende Ja-Kwan e Martini nel lugubre nascondiglio è però da brividi. Di paura. La partita che stanno cercando di recuperare non è semplice strumento di sballamento per annoiati. È un esperimento. E le cavie, molte questa volta, non saranno così “comprabili”. Tanto meno amichevoli.

L’appendice, “never city, never dead”, è il punto di vista di un sopravvissuto all’epidemia di necromortosis. Disperato. Solo. Troppo solo.

Stefano Rossi, già autore di 24 ore, si cimenta nuovamente in un racconto. Anzi, questa volta, uno e mezzo. E, purtroppo, la sua seconda prova non raggiunge il livello della prima. Soprattutto nel primo racconto. Intanto, manca originalità. Si ha una sensazione evidente di già visto e sentito. E viene a mancare quella tensione psicologica che caratterizzava l’opera precedente. Di cui ha perso molti pregi, mantenendone i difetti peculiari, dalla costruzione grossolana dei personaggi, alla scarsità di idee. La costruzione sintattica poi è un po’ azzardata, la scrittura piuttosto accidentata. E le pause. Mancano o, quando ci sono, paiono mal messe. Ci si trova davanti a un torrente che scorre senza argini, straripa disordinato. Ecco, disordine, è senza dubbio la sensazione che suscita la lettura. Unito a un inutile appesantimento, dovuto ai troppi richiami, alle troppe precisazioni. E i dialoghi? L’ispanico che si esprime in lingua a malapena, poi usa termini superscientifici tipo “assoni” o “collegamenti neuronali”. Poco credibile, direi.
Paradossalmente, meglio l’appendice. Che si basa su un’unica, sfolgorante idea. Resa in maniera perfetta, luminosa e dolorosa il giusto.

Il bilancio però purtroppo non può che essere negativo.

(Giovanni Cattaneo)