Il codice della follia, di Edi e Camillo Minguzzi

Schizofrenia. Depressione, ansietà, nevrosi. I disturbi psichici, sopratutto i disturbati. I pazzi, nell’accezione comune, socialmente scorrettissima, ma summa vulgaris eccellente. E l’eterno bivio su come trattarli: tranquillanti e psicofarmaci per sedare i loro demoni, o escavazioni nelle loro menti per affrontarli ed esorcizzarli?
Lucerna, Svizzera. Clinica psichiatrica. Tranquilla, bucolica, un dipinto impressionista. Il direttore Herbert Kamplitsch, metà psicologo e metà filantropo, dedica tutto se stesso alla sua missione. Di recuperare i malati di mente attraverso la psicologia analitica di Jung, passando per il processo di individuazione per arrivare all’accettazione e alla rimozione. In coincidenza della visita di suo cugino Jorg, la serenità della cittadina viene fortemente scossa dal ritrovamento nel lago di resti di donne, che si stabilirà uccise a colpi d’ascia e smembrate. I sospetti si dirigono subito sui degenti della clinica, tenuti da Herbert piuttosto liberi, anche di uscire temporaneamente dalla clinica. Anche, come rivelato dallo stesso direttore solo a Jorg, di poter ricoprire un ruolo nel personale, sotto celata identità. Finché, nel mezzo delle indagini, Herbert stesso viene ucciso. E più di qualche indizio inizia a condurre la polizia verso il cugino, pur sempre ereditante la redditizia struttura. Che è costretto a tentare di ricomporre personalità e identità dei pazienti, soprattutto quelli integrati nelle maestranze, attraverso l’interpretazione di un complesso codice che si rifa ai miti dell’antica Grecia, unico, criptato elenco scritto di chi era pazzo e non lo è più. O forse lo è ancora, tanto da uccidere.
I fratelli Edi e Camillo Minguzzi trasferiscono in questo romanzo le loro più grandi competenze e passioni, fondendole assieme. Così, la filoellenicità di Edi fa da condimento alla classica giallistica di Camillo. Ne scaturisce un’opera certamente coerente, con una struttura da poliziesco molto classica dove sono estremamente circoscritti delitti, moventi e soprattutto sospettati. Il linguaggio scelto è limpido, impeccabile, probabilmente però troppo perfetto fin quasi da risultare piatto, eccessivamente lineare, metallico strumento privo di quel calore-colore, anche lievemente deforme, capace però di suscitare emozioni. Da clinica svizzera, appunto, piuttosto che da pulsante convivio italiano. Che un po’ anestetizza la trama, avvincente e capace di incuriosire. La costruzione dei personaggi è, essa stessa, troppo netta, priva di quelle sfumature tipiche dell’animo umano, che difficilmente è così diritto, privo di dubbi e angosce, fermo nei propri capisaldi come lo sono molti dei protagonisti, tanto più in un contesto emotivamente delicato come quello di una clinica psichiatrica.
In definitiva, quel che ne risulta è un’opera adatta più agli amanti del giallo classico che a quelli dell’arte dello scrivere, quasi teatrale se non fosse per l’alto numero dei personaggi, con un finale certamente in linea con lo stile dell’opera.

(Giovanni Cattaneo)