Il bambino che parlava con il diavolo, di Justin Evans
Titolo: Il bambino che parlava con il diavolo
Autore: Justin Evans
Editore: Newton Compton
Anno: 2009
Pagine: 379
Prezzo: 9,90 (cartaceo)
Sinossi
George Davis ha un problema: non riesce ad affezionarsi a suo figlio neonato. Nella speranza di tenere in piedi il suo traballante matrimonio e di riscattarsi come padre e come marito, George va in analisi. Nel corso delle sedute pian piano cominciano a riaffiorare i ricordi perduti della sua infanzia. Quando George aveva solo undici anni, sconvolto dalla morte prematura del padre, aveva iniziato ad avere delle terribili visioni. Incapace di controllarsi, George si abbandonava a comportamenti aggressivi e violenti. Ma quelle visioni erano solo il prodotto di un’immaginazione troppo vivace? Erano forse sintomi di follia? Oppure il piccolo George era posseduto dal demonio?
La recensione di Nero Cafè
Attratta dal titolo, dalla copertina (che, forse, non è il massimo dell’originalità, ma il suo lavoro lo riesce a fare) e dalle tematiche esposte nella quarta, affronto tutta contenta la lettura di questo nuovo romanzo, a metà strada tra il thriller e l’horror.
Il romanzo zoppica sotto molti aspetti, in primis sotto l’ottica della scorrevolezza: vuoi per uno stile a volte pesante, scientifico, vuoi per le numerose digressioni, vuoi ancora per una trama poco vivace, la storia non riesce a decollare, non ce la fa proprio a coinvolgere il lettore che, bramoso, auspica una svolta narrativa che non giunge. L’intreccio non è lineare e Justin Evans balza da un George adulto e un George bambino, alle problematiche del George padre e a quelle del George figlio; gli va, comunque, il merito di riuscire a proporre i cambi temporali in modo da non confondere il lettore. Come accennato già in precedenza, lo stile non è dei più fluidi e la sintassi a volte risulta un po’ ridondante pur senza eccessivi barocchismi.
Le ambientazioni sono ben proposte, sia a livello temporale sia a livello fisico, ma non si può dire lo stesso dei personaggi, che ricadono in alcuni cliché di genere e non hanno la dovuta profondità psicologica. Questo, purtroppo, li rende piatti e non sufficientemente convincenti.
Pur considerando che l’argomento delle possessioni e dei demoni è stato ampiamente sviscerato nella letteratura (e cinematografia) mondiale, risulta un argomento sempre interessante e capace di accattivare e incuriosire il pubblico. Evans, infatti, fa proprio questo, almeno all’inizio: narra delle vicissitudini di George bambino e George adulto, facendo intersecare passato e presente, situazioni remote e paure contemporanee. Tuttavia, il romanzo proprio non decolla, in primis per uno stile un po’ pedante e poco brioso, un po’ per le circonvoluzioni che l’autore inserisce.
Ho davvero faticato tanto a finirlo, spinta per lo più dalla mia testardaggine a non lasciare alcuna lettura incompiuta (tranne Proust che, purtroppo, mi è sempre parso invalicabile). Una buona idea di base, che si perde nei meandri della prolissità e di un finale che, purtroppo, dice tutto e dice niente, molto interpretativo e, in ogni caso, abbastanza scontato.
Non riesco a dare la sufficienza a questo lavoro, ma non mi sento nemmeno di catalogarlo come “lettura non consigliata”.
Andrà meglio la prossima volta, Justin.
Estratto
Erano in tre. I nomi sono importanti? Toby, Byrd e Dean. Si erano schierati contro di me sulla collina. Davo le spalle al ripido pendio, in una mano tenevo il cestino del pranzo e nell’altra il corno.
«Tuo padre è morto per una malattia venerea, lo sanno tutti», Dean cominciò a sfottermi. «Probabilmente mentre si scopava una puttana laggiù».
«Più probabile che fosse una pecora», aggiunse Byrd. «O una capra».
«Oh, certo, lo sai che ti succede se ti fotti una capra?», sghignazzò Dean. «Il pisello ti diventa blu e ti esce il pus dalla punta».
«E poi ti casca», Byrd rise.
«Tuo padre è morto senza pisello, vero?», continuò Dean. «Hanno detto così, no?».
A quell’età ero davvero un caso disperato: ero grassottello per via di una dipendenza da biscotti e zero esercizio fisico, portavo degli occhialetti con la montatura di metallo da vecchia nonna che mi stavano abbastanza male e che mi scompigliavano i capelli intorno alle orecchie, e per di più ero davvero goffo e impacciato.
Valutazione: due coltelli e mezzo.
(Tatiana Sabina Meloni)