Cannibal Corpse, di Tim Curran

Tim Curran
Cannibal Corpse
Permuted Press , 2012
È la prima volta che mi trovo a leggere un romanzo di Tim Curran, nonostante sia un autore attivo da molti anni. Sapevo di lui che le sue storie sono molto pulp, forse troppo, e di conseguenza l’ho sempre relegato in una sorta di mia personale serie B dei libri da leggere. Cannibal Corpse mi è capitato quasi a sorpresa e ho deciso di fare un tentativo.
La storia è semplice quanto un film di Carpenter. In un’America distrutta dall’Outbreak, i morti risorgono dalle tombe, per colpa di vermi che piovono dal cielo e che ridanno vita ai corpi. In un’ambientazione simile, John Slaughter, membro dei Devils Disciples, è costretto a viaggiare nel cuore delle deadlands con i suoi compagni motociclisti per salvare la vita del fratello, vedersela con il suo passato e fare conoscenza con la mostruosa entità che ha contribuito al cataclisma responsabile della devastazione del globo.
Mi aspettavo un romanzo a tema “zombesco”, ma non è esattamente ciò che ho avuto. Gli zombie ci sono, ma si trovano in secondo piano rispetto al protagonista della vicenda, forse anche perché quasi mai sono in grado di impensierirlo.
John Slaughter, come da nome, è un duro vero, un violento ma in qualche modo segue un codice d’onore dal quale non si discosta. Può sembrare un cliché e, per la prima parte del romanzo, l’ho pensato più volte anch’io, ma l’autore è stato bravo a dargli un certo spessore nel corso dell’opera, tanto che alla fine mi ha ricordato una versione post apocalittica del Conan di Howard. Anche il suo essere praticamente invulnerabile ne è l’eredità, grave pecca, almeno secondo me, in un romanzo in cui la sopravvivenza dovrebbe essere al primo posto.
Dal punto di vista della trama, le prime pagine scorrono via senza lasciare traccia. Molto sangue, vero, e molto piombo, che sembrano però non andare in nessun posto. Quando arriva l’offerta per Slaughter e lui è costretto a interagire con gli altri Disciples le cose si movimentano, soprattutto nel corso dell’esplorazione delle deadlands. L’azione si fa sempre più sincopata e anche la storia si rivela qualcosa di più rispetto a viscere e brutalità. Soprattutto i capitoli in cui si affronta la storia dell’indiano li ho trovati favolosi e devo ammettere che tutta la parte finale funziona molto bene, nonostante Black Hat ricordi molto il Randall Flagg di Kinghiana memoria.
Come narratore, credo che Curran sia tra i migliori e lo dico senza riserve. Le sue descrizioni sono particolareggiate e efficaci: difficilmente ho trovato di meglio in ambito horror. Anche i dialoghi funzionano e l’unico difetto è forse quello di essere un tantino retorici.
La vera pecca di questo Cannibal Corpse è quello di non avere un’identità ben delineata: un po’ di romanzo post apocalittico, un po’ di scene in stile Mercenari, un po’ di sovrannaturale puro. È tutto molto gradevole, ma si ha l’impressione di non aver assaggiato abbastanza.
Occorrerà provare altri piatti cucinati da Tim Curran, per vedere se lo chef è all’altezza delle aspettative.
Tre revolver e mezzo.
(Mauro Saracino)