Vanessa, di Roberto Bommarito
«Guarda che piccino, questo,» esordì mia sorella, Vanessa, il tono soddisfatto, facendo dondolare il Babbo Natale davanti alla mia faccia, come un cucciolo di cane preso dal collo.
«Be’, non è male,» le risposi. Non volevo darle la soddisfazione di ammettere la sconfitta. Era il Babbo Natale più piccolo che avessi mai visto.
I più comuni erano quelli a grandezza d’uomo, che papà ammazzava durante le battute di caccia. In salotto avevamo le loro teste imbalsamate appese al muro. Anche se tutte rinsecchite, non perdevano la barba lunghissima, tanto che io e mia sorella ci appendevamo pure le palline di natale, le lucine colorate avvolte attorno alle loro teste come collane luminose rosse, blu, gialle.
Spesso aiutavo mio padre con il processo di mummificazione. Lo facevo perché vedesse la mia passione, quanto desiderassi divenire un cacciatore esperto come lui. Anche Vanessa desiderava la stessa cosa. Lei preferiva costruire trappole, però. Era più brava di me. Un dato di fatto.
«Come l’hai catturato?» le domandai un po’ per curiosità, un po’ anche per invidia. Le due cose si mischiavano assieme come acqua e succo di limone, una bevanda di emozioni altrettanto aspra. «Allora, me lo dici?»
La piccola preda si dimenava, sputando.
«Ti faccio vedere,» disse lei, afferrando al volo l’opportunità di mostrarmi quanto era stata brava. Le corsi dietro.
I Babbi Natale sintetici erano sfuggiti al controllo della XmasWorld molti anni prima che nascessimo, ci aveva raccontato una volta papà, moltiplicandosi secondo un principio simile alla mitosi cellulare. Simili agli umani solo in apparenza, i costumi rossi erano in realtà la loro pelliccia. A volte si potevano anche incontrare Babbi Natale con due teste o quattro braccia che non avevano completato la fase di replicazione. Casi rari, certo, dato che erano bravissimi a nascondersi, ma capitava ogni tanto di inquadrarli nel mirino del semiautomatico. Ce n’erano di tutte le grandezze. Il più grande, una bestia di quasi due piani d’altezza, fu quello ucciso in una foresta del Connecticut dagli yankee.
I Babbi Natale venivano fuori solo quando avevano fame. Mordevano. A volte uccidevano, pure. Amavano la carne umana. O forse si trattava solo di odio nei confronti dei loro creatori.
In ogni modo, grazie a loro era un po’ Natale tutto l’anno.
Io e Vanessa rimanemmo immobili, lei ancora col Babbo Natale in mano. La neve era così fredda che bruciava la pelle.
«Ce ne sono altri sei!» esclamai. In pochi minuti, mentre lei era stata via, la sua trappola ne aveva catturato un intero branco. Si dimenavano contro la gabbia. Inferociti.
«Già, altri sei,» mi fece eco lei, incredula tanto quanto me.
Sei, anzi sette in tutto, erano troppi.
***
«Papà». Disteso sul lettino d’ospedale, guarda fuori dalla finestra, ignorandomi. Ogni giorno il suo volto si fa più sottile. La respirazione più difficile.
Non è più un po’ festa tutto l’anno, come quando ero piccolo. Oggi il mondo celebra tre anni dall’uccisione dell’ultimo Babbo Natale, non troppo lontano da qui, nel Trentino-Alto Adige.
«Papà,» insisto, ma è inutile. Vorrei solo uno sguardo. Che smettesse per un attimo di pensare a mia sorella. «Vanessa,» è l’unica parole che gli esce di bocca nei momenti di lucidità. Lei non c’è più, ormai da tanto tempo, uccisa troppo presto.
«Papà,» ripeto per una terza volta.
Lui mi guarda, finalmente, gli occhi due fessure strette, ma l’odio nel suo sguardo traspare comunque. Fui io a imprigionare nella sua stessa gabbia Vanessa, lasciando che venisse divorata viva.
«Mi spiace di averlo fatto,» gli mento.
Lui scuote la testa, facendo no, no, no. «Non è vero,» borbotta a fatica.
E io scoppio a ridere.