Il rosso e il bianco, di Erika Adale
Racconto estratto dal concorso Minuti Contati, 51° Edizione
Ho ritrovato il coraggio di tornare sulle piste.
Ho comprato l’attrezzatura più moderna, una tuta rosso fragola che si veda anche nella nebbia e un bel casco in tinta. La sicurezza prima di tutto.
Ieri ho provato qualche discesa facile, di quelle su cui brancolano i principianti con gli sci incrociati e la cuffia storta dalla disperazione. Un po’ di nervosismo, poi il suono morbido della neve, l’aria di montagna che inebria come un vino frizzante mi hanno fatto rimpiangere il tempo trascorso lontano dal mio sport preferito. Certo, l’equilibrio non è più quello di una volta: a tratti barcollo, alla ricerca del baricentro perduto dieci anni fa.
Ho deciso di tornare su quella pista.
Oggi è nebbioso, la neve e il cielo bianco si confondono in un’unica coltre di candore. Lo straordinario paesaggio delle Dolomiti è scomparso, solo la voce degli altri sciatori mi assicura di non essere sola in cima alla montagna.
Con un brivido mi accorgo che tutto è identico ad allora. Solo io sono cambiata.
Anche allora la visibilità era scarsa, ma mi ero gettata senza paura nell’aria lattiginosa. La mia tuta era bianca come la neve, come la nebbia che avvolgeva la vetta. Ero parte della montagna, invisibile come una leggiadra fata dell’inverno.
Udii un grido, il rumore aspro degli sci che sollevavano un’onda di neve nel tentativo di fermarsi. Un colpo alla testa mi tolse il fiato, poi una macchia rossa di dolore esplose all’altezza dell’orecchio sinistro e ricoprì ogni cosa. Mi accasciai nella nebbia divenuta porpora, annaspando in cerca d’aria.
Un’indistinta ombra vermiglia si chinò a guardarmi un’istante, poi si voltò e sparì nella foschia, spegnendosi come una fiamma. Mi aveva abbandonata al mio destino.
Mi attendevano settimane di rianimazione, mesi di riabilitazione.
La fata leggiadra dell’inverno era volata via.
Ora scendo cauta, temo le voci degli altri sciatori. Ho paura di qualcuno che mi piombi addosso, così continuo a gettare occhiate alle mie spalle, ma la nebbia è troppo densa e non riesco a scorgere nessuno. Eppure avverto il suono ritmico di una sciata a pochi metri.
Mi si para davanti all’improvviso. È una ragazza bionda, avvolta da una tuta candida un po’ demodé, la cuffietta di lana in testa. Lancio un grido, butto il peso sulle lame interne degli sci per frenare, ma non faccio in tempo. Le crollo addosso e con il casco la colpisco a una tempia.
Crolla a terra come un fantoccio, un filo di sangue le riga il volto niveo. Mi chino verso di lei e mi specchio terrorizzata nel suo viso.
Se ci toccassimo forse cambierei il mio passato o il suo futuro. Ma ho già girato gli sci e sto fuggendo a valle, abbandonandoci al nostro destino.