Intervista a Jonathan Maberry

Il Terzo Occhio e Black Mind presentano un’intervista esclusiva a Jonathan Maberry, autore del recente Rot & Ruin, edito da Delos Books.

Diamo il benvenuto a Mr. Maberry e iniziamo subito andando all’indietro, tornando alle origini.

Perché scrivi? Quando, dove e come ti sei reso conto di essere uno scrittore?

J. Maberry: Ho sempre saputo che avrei fatto lo scrittore. Da bambino raccontavo delle storie usando i miei giocattoli, e in seguito dei disegni. Non ho mai desiderato fare altro. Naturalmente c’è voluto un po’ perché potessi scrivere a tempo pieno, e strada facendo ho fatto lavori diversi come l’istruttore di arti marziali, l’insegnante al college, la guardia del corpo, l’artista grafico e perfino il rappresentante del servizio clienti di una casa farmaceutica.
Negli anni ho sperimentato modi diversi di scrivere. Ho pubblicato oltre un migliaio di servizi e ho curato migliaia di rubriche sulle riviste più importanti. Ho scritto testi per biglietti d’auguri, rappresentazioni teatrali, manuali per il fai da te, guide per la formazione, libri di scuola, testi di canzoni e così via. Nel 2005 decisi di mettermi alla prova con la narrativa, e scrissi il mio primo romanzo, Ghost Road Blues. Lavorando a quel libro scoprii che scrivere narrativa era quello che mi piaceva di più e da quel momento è diventato l’aspetto di maggior successo della mia carriera di scrittore.

I tuoi primi libri, Ultimate Jujutsu per esempio, trattavano di arti marziali e di autodifesa. Poi, nel 2006 hai scritto Vampire Universe, un compendio enciclopedico su vampiri e altre creature soprannaturali, a cui è seguito Ghost Road Blues, il primo titolo della Trilogia di Pine Deep, che ha vinto nel 2007 il Premio Bram Stoker per la miglior opera prima. Come cambiamento di temi è affascinante. In che modo si arriva dalle arti marziali all’orrore soprannaturale?

J. Maberry: È stata mia nonna a mostrarmi per prima quello che lei chiamava «un mondo più vasto». Era di origini scozzesi, ma nata in Alsazia–Lorena. Da bambino mi raccontava spesso storie del folclore europeo incoraggiandomi a mantenere sempre una mentalità molto aperta. Poi, crescendo, iniziai a leggere narrativa soprannaturale e a guardare film horror di diverso tipo. Non in modo esclusivo – ho gusti molto vari in fatto di libri, musica e film – ma di certo l’interesse per il soprannaturale aveva un ruolo importante per me.
A ogni modo, quando entrai nel mondo dell’editoria iniziai con articoli su riviste e libri di saggistica. C’è un detto, «scrivete di quello che conoscete», e la cosa che conoscevo di più erano proprio le arti marziali. Avevo studiato il Jujutsu e il Kenjutsu da quando avevo sei anni ed ero molto appassionato della scienza, della storia e della filosofia su cui si fondavano quelle discipline, come pure mi affascinava la storia delle arti marziali di tutto il mondo. In seguito, avrei insegnato storia delle arti marziali alla Temple University. Tuttavia il mio interesse per il soprannaturale non venne mai meno e così – dopo aver ottenuto un certo apprezzamento grazie ai miei libri sulle arti marziali – chiesi al mio editore di poter provare qualcosa di diverso, più esattamente un libro sul folclore soprannaturale. Disse di sì, ma solo a patto che usassi uno pseudonimo. Accettai malvolentieri, e il mio primo libro sul mito del vampiro e del lupo mannaro, The Vampire Slayers Field Guide to the Undead (Guida sul campo ai non morti per gli ammazzavampiri, ndt), uscì con la firma di Shane MacDougall. Scrivere quel libro mi fece prendere gusto per l’argomento, e decisi di rivolgermi a un altro editore che mi permettesse di usare il mio vero nome. Così iniziai a scrivere narrativa horror e altri saggi come Vampire Universe, la Cryptopedia e così via.

Molte persone sono sconcertate dal successo che la narrativa horror continua ad avere ai nostri tempi. Oggi abbiamo Internet, voliamo nello spazio e manipoliamo il codice genetico. In teoria, nel nostro mondo non c’è più spazio per il soprannaturale ma in realtà la cosa non è poi così semplice. Mi chiedo: che cosa può dirci l’horror della nostra epoca? E come può interpretarla?

J. Maberry: Viviamo in un mondo con molti problemi. C’è il terrorismo, le banche e la nostra economia vengono meno, continuano a esistere acredini a sfondo politico e religioso. Sono tutte cose che ci terrorizzano e che in maggior parte non siamo capaci di controllare. Tuttavia possiamo usare mostri come zombie, vampiri e così via come metafore di questi problemi del mondo reale che ci fanno paura, e grazie a un romanzo o un film possiamo sollevarci a una dimensione eroica, nella quale il mostro può essere sconfitto. È una delle ragioni per cui abbiamo sempre amato le storie dell’orrore: perché ci parlano non tanto dei mostri, quanto di quelle persone che trionfano su di loro. Certo, ci sono libri dell’orrore in cui il mostro è il protagonista, ma sono pochi quelli che attirano l’attenzione o di cui si parli. I libri con più chiavi interpretative possibili, e attraverso i quali possiamo sconfiggere quello che temiamo davvero… beh, quelli sono libri di enorme successo e altrettanto utili per chi li legge.

Nella trilogia di Pine Deep c’è ampio spazio per creature non morte e morti viventi, e questo è vero anche per Rot & Ruin, ambientato in un mondo devastato dal loro risveglio. Mi chiedo se c’è una sottile linea rossa, qui. Che cosa di queste creature affascina te come scrittore e, visto che ci siamo, legioni di lettori?

J. Maberry: Trovo affascinante l’idea che persone reali affrontino situazioni che ai loro occhi sono irreali. Vi ho già accennato prima, ma vale la pena di approfondire. Da bambino ho iniziato a leggere narrativa di argomento apocalittico perché avevo la sensazione di vivere in un mondo che stesse crollando. Sono cresciuto in una casa in cui regnava un’atmosfera molto violenta, e vivevo in un vicinato ferocemente razzista e pericoloso. Avevo la sensazione che il mio mondo fosse sull’orlo della fine o stesse finendo. Di solito nella narrativa apocalittica c’è sempre un barlume di speranza, non importa quanto la situazione sia terribile, e questo era per me una consolazione.
In seguito, da scrittore, mi sono accostato alla narrativa apocalittica da più direzioni. Il mio romanzo Patient Zero è incentrato sul come fermare l’apocalisse. In Dead of Night ho esplorato come le cose possano andare di male in peggio, e tuttavia vi si trova ancora un elemento di eroismo e speranza. E nel ciclo di Rot & Ruin l’apocalisse è già avvenuta, e la nuova generazione – i giovani – non vedono l’ora di trovare un modo per rivendicare e ricostruire il mondo devastato ricevuto in eredità.

La prima cosa che colpisce leggendo Rot & Ruin è lo spaccato sociale di Mountainside, che dà l’idea di una comunità bigotta, e allo stesso tempo di una società moderna. Sembra quasi che tu abbia cercato di infilare in Mountainside – riuscendoci bene – tutti i limiti e i difetti della società attuale, esasperandoli. È stata un’operazione cosciente, erano queste le intenzioni, o secondo te è solo un effetto derivante da un normale processo di immedesimazione?

J. Maberry: Non esistono società ideali e Mountainside possiede alcuni tra quelli che mi sembrano i difetti più inquietanti del nostro mondo reale: l’intolleranza religiosa, l’avidità, l’inflessibilità ostinata, il rifiuto di guardare al mondo e vederlo come davvero è. Quindi… sì, certo, attingo da quello che vedo attorno a me. I giovani possono scegliere: accettare le cose così come stanno, o lottare per creare qualcosa di nuovo e di migliore.

Benny Imura è all’inizio estremamente insopportabile, spocchioso e infantile. In questo senso, Rot & Ruin sembra un romanzo di formazione. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è sempre difficile da gestire – ricordiamo ad esempio il celebre It di Stephen King, per restare nel campo dell’horror. Qual è, secondo te, il fascino di questo tema?

J. Maberry: Benny è una persona ferita nella sua emotività, come lo sono tutti i sopravvissuti alla Prima notte, l’epidemia degli zombie. Il suo carattere difficile nasce esclusivamente dalla sua ingenua mancanza di comprensione del mondo. Tuttavia, c’è anche il mio punto vista ottimista per il quale la maggior parte delle persone sono di buon cuore, e pronte a cambiare quando hanno la possibilità di farlo. Possiamo perdonare Benny per la sua cattiveria e mancanza di gentilezza proprio perché – quando vede la verità – la abbraccia, ed è questo che fa di un individuo una persona completa.

Nell’incontrare la Lost Girl, la prima cosa che viene da pensare è che si tratti di un personaggio a te caro. Forse è perché appare come il più costruito, questa ragazza che vive da sola nella terra degli zombie, sopravvissuta per anni non si sa come, che nessuno riesce a trovare. Come ti è venuta l’ispirazione per la creazione di questo personaggio?

J. Maberry: La Lost Girl è una cifra che racchiude aspetti del carattere di diverse ragazze e donne che ho incontrato. Per molti anni ho insegnato autodifesa, e ho visto diversi casi di donne che avevano subito abusi tali da abbandonare quello che è il normale comportamento sociale. Alcune mi sono sembrate annientate, impossibili da aiutare, e altre mi sono parse disposte a lottare per riprendere in mano la propria vita. Quando facevo l’insegnante, il momento chiave per me era proprio quando le mie allieve riconquistavano il senso del proprio valore, e credevano davvero che valesse la pena di lottare per loro stesse. È in quel momento che una donna smette di essere una vittima e diventa una superstite. È un momento fantastico, e nel corso degli anni ho viste molte di loro trovare un’assoluta fierezza dopo aver ritrovato il rispetto di sé. La Lost Girl è un po’ la personificazione di questo processo.

L’elemento più forte del romanzo è, a mio avviso, l’umanità. La tecnica di “chiusura” utilizzata da Tom Imura, il modo in cui riesci a esporla al lettore, rendendola visiva e drammatica, tutto contribuisce a creare un’atmosfera densa di emozioni. Durante la lettura non si ha mai la sensazione di leggere un romanzo sugli zombie, quanto più una storia umana, con uno spiccato sfondo sociale e di grande introspezione. Quanto è importante per te – se lo è – che nel lettore si crei questo tipo di empatia?

J: Maberry: C’è un segreto per scrivere una storia davvero buona sugli zombie: non si deve scrivere degli zombie. Il morto vivente è una metafora dietro alla quale si nasconde quello di cui si ha paura, qualunque cosa sia. Se si dedica fin troppo tempo agli zombie, si finisce per dar loro troppo risalto, fino al momento in cui non si racconta più e si finisce con il tenere un noioso soliloquio. Inoltre quanto più si guarda da vicino il mostro, tanto più questo non fa paura.
La conclusione è che le storie di zombie hanno al centro delle persone che affrontano insieme una crisi, tale da avere un impatto su ogni aspetto della vita di tutti loro. Nel pieno di una grande crisi si vedono emergere le vere qualità di una persona. Un uomo che nella sala del consiglio d’amministrazione è un leone può trasformarsi in un idiota che balbetta, uno spazzino che in apparenza non ha ambizioni potrebbe possedere quella scintilla di leadership che finora non ha mai dovuto praticare, e così via. Una crisi spazza via ogni artificio e fa emergere la nostra vera natura. Ed è questo alla base di una buona narrazione, si tratti o no di storie horror: far passare a della brava gente un brutto quarto d’ora per farsi un’idea di chi sono davvero.

Rot & Ruin è, per certi versi, anche caricaturale. L’estremismo di alcuni atteggiamenti fa pensare che tu abbia volutamente cercato di rendere a tratti esagerati alcuni comportamenti. Un esempio è l’eccessiva stupidità di Benny, che è addirittura un fan di Charlie occhio-di-vetro e di Motor City Hammer, soltanto per scoprire poi di che feccia si tratti. Oppure il suo odio eccessivo per il fratello Tom, fino a quando non riscopre con lui il legame perduto. E ancora, nella crudeltà stessa dei Cacciatori, enfatizzata fino ai massimi termini. Tutto questo lo hai fatto per sdrammatizzare una vicenda di per sé tragica? Per dissacrare buoni e cattivi? O si tratta di una semplice impressione?

J. Maberry: I bambini sono portati a vedere le cose con emozioni che tendono a degli estremi. Una cosa è fantastica o stupida, una persona è un eroe o un fallito… la complessità delle cose è qualcosa che s’impara. È attraverso l’esperienza che sviluppiamo la capacità di vedere persone, cose e situazioni per quello che sono, invece che dar loro delle etichette esagerate. So che è stato così per me, come lo è stato per mio figlio. Con il tempo e con l’esperienza ho imparato a misurare le opinioni e i punti di vista. In Rot & Ruin vediamo Benny Imura attraversare questo processo, ma visto che si tratta di un romanzo e i fatti avvengono con un ritmo molto veloce, l’intero processo si sviluppa nell’arco di alcune settimane.
A ogni modo, quando vediamo l’avversione estrema che Benny prova per suo fratello è possibile capire che sta cercando di esprimere una sua opinione sulla giustizia e su ciò che è giusto e sbagliato: Benny crede davvero che sua madre sia morta perché Tom era troppo codardo per provare a salvarla. Una convinzione così terribile può davvero contaminare un’anima se non la si tiene d’occhio, ma anche creare la possibilità di trovare in sé una vera forza quando si scopre come stanno le cose. È una convinzione in cui si sviluppa la possibilità di trovare un vero scopo.

Come forse sai già, l’Italia è un paese che vive spesso di pregiudizi. Ci sono molti critici, intellettuali – e perfino scrittori – che sfoggiano un certo snobismo intellettuale verso l’horror. A pensarci, è ironico visto che l’Italia è l’ambientazione preferita dei primi romanzi gotici. Cosa diresti a queste persone in difesa dell’orrore soprannaturale nella letteratura?

J. Maberry: Ho notato spesso che lo snobismo si fonda sull’ignoranza. La maggior parte delle persone che deridono la letteratura di genere non l’hanno mai letta, o ne conoscono così poca che le loro opinioni hanno ben poco peso. Personalmente ho poca pazienza verso quelle menti poco aperte che prendono posizioni imperiose, convinte che questo comportamento le presenti come menti dall’elevato intelletto.
Detto questo, ci sono elementi di horror e fantasy nelle opere letterarie più antiche. Pensa all’Epopea di Gilgamesh, il più antico esempio di parola scritta che si conosca, e ai suoi molti mostri e demoni. È chiaro che quest’opera non è tanto un tentativo di raccontare le cose così come sono accadute, quanto di raccontare verità fondamentali sull’uomo attraverso storie fantastiche che raccontano la lotta tra bene e male in tutte le sue forme. Pensa all’Iliade e all’Odissea, alle opere di Shakespeare e alla maggior parte dei capolavori della letteratura, e spesso ci puoi trovare un elemento fantastico. I mostri sono dappertutto, e anche Dante Alighieri ha usato immagini d’orrore nella Divina Commedia. E ancora, i mostri abbondano nelle inquietanti novelle delle Piacevoli notti (raccolta di racconti dello scrittore italiano G.F. Straparola, pubblicata a metà del XVI secolo, ndt) e nell’opera di Giambattista Basile. L’elemento soprannaturale in narrativa è uno dei mezzi migliori che abbiamo per dare un significato alle storie servendosi di metafore e allegorie. Con le storie di vampiri esploriamo l’immortalità, la natura e l’esistenza dell’anima, il conflitto tra culture, la seduzione, le deviazioni e gli abusi sessuali, le questioni di genere e molto di più. Le storie di lupi mannari ci permettono di esplorare il lato ferino che esiste nel profondo dell’uomo civile, e di confrontarci con la natura del dualismo. Le storie di fantasmi ci permettono di affrontare un’intera gamma di questioni psicologiche, dalla perdita e dal lutto fino al trauma e il rimpianto. È un’idea assurda liquidare una storia soltanto perché contiene un elemento soprannaturale.

Un sentito ringraziamento a Jonathan Maberry per la sua cortesia e disponibilità e in bocca al lupo per i suoi lavori futuri.

(Francesco G. Lo Polito e Daniele Picciuti)