Evidence, di Olatunde Osunsanmi
Evidence è un film interessante, capace di mescolare il mockumentary con il girato classico. Il regista Olatunde Osunsanmi (noto per aver girato il film Il quarto tipo ed episodi di molte serie tv, tra cui Star Trek: Discovery e Bates Motel) riesce con arguzia a montare le varie parti in modo da sorprendere lo spettatore là dove serve. Su questo non posso davvero aggiungere altro per non incorrere in spoiler.
Il film si apre con una carrellata di fermo immagini ce riprendono una scena del crimine in tutte le sue sfaccettature: pezzi di corpi ritrovati, agenti di polizia che si dispongono per i rilevamenti, dettagli di prove rinvenute sulla scena, un pulmino rovesciato sull’asfalto, resti carbonizzati di edifici e corpi umani, il tutto orchestrato ad arte. Si passa poi agli investigatori, i detective della omicidi Reese (Stephen Moyer) e Burquez (Radha Mitchell), i quali iniziano a visionare dei video rinvenuti sul luogo dell’eccidio. Già, perché, a quanto pare, su quel pulmino viaggiavano due ragazze e un ragazzo – più altre persone – intente a girare una sorta di film che avrebbe dovuto lanciare la carriera da attrice di Leann (Torrey DeVitto). La regista, Rachel (Caitlin Stasey) ha quindi ripreso gran parte dei fatti, fornendo alla polizia molte prove grazie a cui ricostruire la dinamica degli eventi che hanno portato al massacro.
Durante il corso del film capiamo che c’è un unico superstite, ma non ci viene mostrato né rivelato fino alla fine. In In Evidence, l’indagine procede su un doppio binario: da un lato, seguiamo le riprese di Rachel, ritrovandoci in un inferno allucinante che vede un misterioso assassino aggirasi nell’area industriale abbandonata in cui il gruppo è finito e bruciare vivi gli sfortunati passeggeri del bus. Dall’altra, ricostruiamo con Reese i fatti, trovando nuovi particolari nella pellicola che aprono, di volta in volta, nuove piste. Questo parallelismo è la chiave su cui gioca il regista ma, ancora una volta, non posso dire di più.
Non nego che, a un certo punto – anzi molto presto – ho subodorato come sarebbe andata a finire, o meglio quale fosse il “trucco” di Osunsanmi, ma devo anche ammettere di avere ormai una certa esperienza in queste cose e mi risulta sempre più difficile incappare in una trama capace di sorprendermi. Nonostante questo, il finale mi ha appagato perché, per una volta, aver indovinato non ha sminuito la visione del film ma, anzi, l’ha resa più soddisfacente, anche perché non è facilissimo capire “come” si arrivi alla spiegazione così presto annusata. A tutti coloro i quali non arriveranno, come invece ho fatto io, al lampo di genio a metà film, posso solo dire che il colpo di scena finale lascerà di sasso.
Gli attori si muovono su due piani diversi. Mentre Moyer e Mitchell sembrano impersonare un po’ troppo gli stereotipi del poliziotto impulsivo e di quello riflessivo, risultando a volte banali nei loro atteggiamenti (qui gli sceneggiatori potevano sforzarsi un po’ di più), Caitlin Stasey e Torrey DeVitto sono perfettamente calate nella parte e riescono a brillare, soprattutto la prima.
Se siete amanti dei film sui serial killer mascherati (come Scream o So cosa hai fatto), questo film non potete perdervelo. Se invece amate i mockumentary, resterete sorpresi perché, in questo senso, è una pellicola che ha una marcia in più.
Quattro coltelli.
(Daniele Picciuti)