Carne e ossa, di Kathy Reichs

Il titolo. Carne e ossa. Evocativo, promettente. Sembrerebbe preso da una macelleria, da un mattatoio. Di muscoli e articolazioni umane. Da farne polpette al sugo. Ovviamente, impresso in caratteri rossi. Perfetto, semplice, dritto.
Sud degli Stati Uniti. Durante gli scavi archeologici preliminari alla costruzione di un nuovo centro residenziale, viene rinvenuto un cadavere sepolto. Senza nome, senza segni visibili da cui partire per ricostruirne la storia. Tempe Brennan, antropologa forense addetta ai rilevamenti, è la persona più indicata a svelarne i segreti. Che tardano ad arrivare. Non si fa invece attendere il secondo morto, questa volta impiccato in apparente intenzione suicida. Connessioni? Consequenzialità? Nessi? Sarà proprio Tempe a dover cercare di scoprirle, mentre attorno a lei l’ex marito diventato ex con qualche rimpianto e senza molti perché, e la nuova, atletica ed esotica fiamma, si alternano nei suoi pensieri e nel suo quotidiano. E l’amarezza infinita di una morte inevitabile, una cara esistenza che si sta spegnendo troppo presto, le renderà il lavoro più difficile, fornendole al contempo motivo invincibile per andare avanti. Anche quando arriverà il terzo caso. Anche quando la sua stessa vita verrà messa in gioco.
Le enormi promesse del titolo sono mantenute a metà. La vicenda si snoda un po’ pigra tra verdi riferimenti agresti – durante questa lettura ci si può fare una cultura botanica, ah le tillandsie! – assolate e afose giornate unioniste, e cadaveri. La sensazione è quella di un crescendo, inizio un po’ lento, poi emozioni che si susseguono. E infine di nuovo un calando, con il finale che diventa un po’ didattico. Senza slanci geniali, ma per fortuna anche senza voli improbabili. E la scrittura diventa gradevole, tra un pizzico d’ironia, raro in certi contesti, e una bellissima, seppur vagamente celata, analisi comportamentale sul sapere di morire che, pur essendo laterale, come accade sovente, è forse la parte più interessante. E come spesso capita nei romanzi scritti da mano femminile, l’introspezione caratteriale, le sensazioni legate all’evolversi dei fatti e i sentimenti diventano preponderanti rispetto i fatti stessi. Il che, talvolta, può anche essere un bene. Un velo invece sui dialoghi. Certi modi di esprimersi tipicamente americani vanno riadattati, sennò paiono a noi sempre fuori contesto. E credo che, fra loro, le persone parlino in modo un po’ più spontaneo, meno affettato. Con l’immancabile “sputa il rospo” che in ogni romanzo americano dev’essere presente. Scrittura troppo ingessata o, come credo, traduzione frettolosa?
Da sorseggiare piano all’ora del tè, in una veranda di una casa assolata, ovviamente circondati da tillandsie.

(Giovanni Cattaneo)