Nero per Bond
Ma James Bond è “nero”?
Mah, forse lo è il suo smoking e anche lo lo sfondo della famosa “gun barrel sequence” o la sua silhouette che spara verso lo spettatore. O forse no.
È comunque particolare la sorte di James Bond, agente 007 al servizio segreto di Sua Maestà. Nasce nel 1953 dalla penna di Ian Fleming, guidata dal desiderio di fuggire alla routine della vita coniugale con la sua allora moglie e precedentemente amante Contessa Anne Rothermere. Il luogo della nascita pare coincida con quello della fuga periodica del suo autore che, da Gennaio a Marzo (per sfuggire anche all’inverno inglese), si rifugiava in una villa in Giamaica chiamata Goldeneye (e che ora appartiene a Naomi Campbell).
Per sua stessa ammissione, Ian Fleming immaginava il suo agente come un mix tra David Niven e Cary Grant, due attori britannici eleganti, affascinanti e dotati di quello che all’epoca veniva definito un “simpatico sentore di misoginia”.
Per la verità, a uno sguardo contemporaneo, James Bond, come personaggio dei suoi romanzi, è un vero campione del politicamente scorretto riguardo il comportamento che mantiene nei confronti del sesso femminile, tanto da far temere che prima o poi la cancel culture possa avventarsi anche su di lui. Non dimentichiamo che, per quegli anni, scrivere le vicende di un agente “con licenza di uccidere” era già abbastanza di rottura, specialmente per un inglese. I cugini di oltreoceano avevano meno remore morali nel mettere in campo eroi noir – come Mike Hammer- con pochi scrupoli e senza tanta necessità di giudice o giuria per decidere di farsi giustizia da soli.
Insomma, Bond agisce come arma umana del servizio segreto inglese, viene caricato, puntato e lanciato, e lui colpisce, anche a sprezzo della propria vita. Questa vita perennemente in bilico viene bilanciata da innocui lussi e piccole manie (le sigarette fatte con una miscela particolare di tabacco, la preparazione dei cocktail descritta minuziosamente, le avventure sessuali con splendide donne in luoghi esotici…) purché alla fine porti a casa il risultato: far prevalere gli interessi della Corona contro i suoi nemici.
È noir questo? No, è spionaggio, con punte occasionali di noir come, ad esempio, in Vivi e Lascia Morire dove incrocia i guantoni con il voodoo e viene sottoposto a discrete torture fisiche e L’Uomo dalla Pistola D’Oro, che lo vede contrapporsi a un quasi fratello gemello, apertamente killer a contratto.
E poi Bond appare sullo schermo e inizia la sua carriera lunga venticinque film (quelli ufficialmente facente parte del canone, altrimenti sarebbero ventisette in uno dei quali David Niven, finalmente, presta il volto a un Bond avanti negli anni) dove viene interpretato quasi sempre da attori di non ancora chiara fama cinematografica che, prima o poi, soffrono tutti, in misura variabile, della stessa sindrome distimica di amore/odio nei confronti del personaggio. Inoltre la serie di film rappresenta quanto di più vicino ci sia alla mentalità “da soap opera” in un franchising cinematografico, e mi spiego prima che qualche bondiano DOC venga a farmi fuori con una Walter PPK.
James Bond entra nel tritacarne delle produzioni cinematografiche ad alto budget guadagnandosi lo status di “gallina dalle uova d’oro” sottoposto a sfruttamento intensivo; quindi ben presto gli intrecci dei libri vengono abbandonati (non solo perché i romanzi sono in tutto solo undici più due raccolte di racconti) e anche la loro sequenzialità (creando qualche lieve problema di storyline tra un film e l’altro ovviamente ignorato con estrema nonchalance). Il personaggio, poi, viene cucito addosso all’attore di turno sfruttandone le principali caratteristiche e, di volta in volta, ci sono personaggi secondari che spariscono, riappaiono, cambiando faccia senza alcun problema.
Mentre trascorrono anni e film, gli emuli bondiani proliferano sulla carta stampata, al cinema e alla televisione, e, se i primi tentativi sono banali scimmiottamenti, piano piano il tiro viene aggiustato finché tra il 1996 e il 2002, mentre Pierce Brosnan è il primo Bond ad avere un capo donna (il migliore M di sempre: Judy Dench) Tom Cruise scende in campo con Mission: Impossible (versione cinematografica di una serie TV di successo) e Matt Damon esplode con il personaggio di Jason Bourne (dai romanzi dello scrittore statunitense Robert Ludlum) che prendono due delle specificità di Bond e le rielaborano in maniera del tutto nuova: la acrobaticità e i gadget elettronici per Mission: Impossible e l’efficacia nella lotta dell’agente / killer mortale per Bourne.
Per rispondere a questi nuovi competitori, Bond viene stoppato per quattro anni e, quando ricompare sullo schermo, ha il volto “da crucco cattivo” di Daniel Craig, mena come un dannato, usa qualsiasi mezzo a sua disposizione pur di fermare un solo terrorista, si dimostra testardo e insofferente per qualsiasi tipo di regola pur di acchiappare la sua preda, arrivando addirittura a lasciare una bond girl come Caterina Murino sola in una suite insieme a caviale a champagne interrompendone la seduzione per andare a catturare il di lei compagno dinamitardo.
Ci ritroviamo un Bond grossolano, che becca cazziatoni, se ne frega di come gli preparano i cocktail e non sa nemmeno come indossare uno smoking.
Ma è il Bond più noir che si sia mai avuto. Parte come un novellino e alla fine del film è un vero killer, spietato, cinico e disilluso (infatti solo alla fine si concede la battuta “Name is Bond… James Bond”).
Sono cinque i film di Craig, funestati da un saliscendi di impressionante simmetria, il secondo e il quarto della serie (Quantum of Solace e Spectre) sono i punti più bassi, il primo e il terzo i migliori (Casino Royale e Skyfall). Skyfall, poi, ci regala un “terzo atto” che vede Bond nel ruolo dell’uno contro tutti che piaceva tanto a Clint Eastwood quando indossava i panni di Dirty Harry Callaghan.
In questo autunno di ritorno al cinema post covid finalmente è arrivato l’ultimo film della serie (Attenzione: spoiler).
Cary Fukunaga ha sostituito durante la lavorazione Danny Boyle alla regia, come dire, un passaggio da Trainspotting a True Detective. Beh, ci si aspettava qualcosa di epocale, considerando che Daniel Craig era stato (a suo dire) convinto non solo dal congruo assegno di ingaggio ma anche dalla trama.
Per la simmetria di cui sopra, questo quinto ed ultimo episodio di Craig non è “un punto basso” ma forse il meno alto degli alti.
Lo sarebbe, magari, se alla fine del film, dopo che Bond muore (non diciamo come per non eccedere in spoiler) non comparisse la classica scritta “James Bond will return”. Attenzione, non “007 will return”, cosa che poteva essere intrigante visto che nel film viene finalmente sdoganato il fatto che la sigla 007 è “solo un numero” e che esiste già un nuovo 007 (una donna afroinglese, penso che si dica, altrimenti mi intesto il neologismo).
Sarebbe stato bello dover dire addio a James Bond che idealmente passa il testimone ai suoi eredi moderni e si ritira nel cimitero dei dinosauri insieme ad altri personaggi del passato.
Sarebbe stato bello portare il nero del lutto per questo vecchio amico.
Invece no.
No Time To Die, dice il titolo: a James Bond non viene dato nemmeno il tempo di morire.
Chi sceneggerà il ritorno di Bond dalla morte e la sua guarigione da un virus del genere?
Vi immaginate che sedute di brainstorming cazzeggione ci saranno?
Oppure si sceglierà di far finta di niente?
E, soprattutto, ne varrà la pena?
Comunque vada c’è del nero molto d’effetto nel film: quello del vestito di Paloma, agente segreto di stanza a Cuba, interpretata da Ana De Armas: un personaggio dalle mille sorprese.
(Arturo Fabra)