Intervista a Franco Limardi
C’era una volta il West… o forse no.
Allora, all’epoca dei fatti potevo essere alto più o meno come R2-D2 e, come l’astrodroide di Guerre Stellari, anch’io ero parecchio curioso. Mi ricordo che, come molti altri bambini, alla biblioteca dei piccoli prendevo in prestito tutti quei libri che contenessero la parola “perché” nel titolo e, se mi imbattevo in qualcosa che non capivo, mi inventavo una spiegazione. A quei tempi però non avevo ancora afferrato bene il concetto di sincronicità e la televisione mi aveva confuso le idee; da sempre i film western esercitano un certo fascino e quando ero piccolo sognavo di essere a bordo dell’Enterprise oppure in sella a un cavallo per assaltare qualche diligenza o sistemare i conti con i cattivi. Mi ricordo che un giorno chiesi alla maestra “ma in Italia c’erano i cowboy?”
Se devo essere sincero avevo qualche difficoltà a collocarli nel paesaggio italiano; non avevo mai visto una città fatta di legno o anche un solo deserto in Piemonte, ma speravo tanto che la maestra non mi deludesse.
Avrei voluto sentirmi rispondere: “certo che c’erano e da piccola ho visto anche gli indiani. Pensa che dove ora c’è la scuola, una volta c’era un forte delle giacche blu e lo sceriffo abitava più o meno dove c’è il campetto da calcio.”
Purtroppo la maestra non diede spazio alle mie fantasie, si limitò a ucciderle con della sana, robusta e precisa conoscenza, bofonchiando qualcosa in merito ai Borboni.
Non la presi molto bene e ci vollero molti anni prima che scoprissi la verità; qualche anno più tardi, alle scuole medie, studiai i Borboni e i briganti.
Con le dovute differenze e senza deserti, il brigantaggio era quanto di più simile ci fosse allo stile di vita dei cowboys e ciò mi bastò per capire qualcosa in più anche della maestra.
Al mondo esistono gli integrati, quelli che fanno parte del sistema e i dissidenti che al contrario lo combattono. Essendo integrata, la maestra aveva usato il “sapere” per celebrare il sistema, parcheggiarmi un ricordo spiacevole nella memoria e celare l’esistenza dei dissidenti; forse il brigantaggio era un argomento troppo difficile per un bambino, ma rimane il fatto che avrebbe potuto avere un minimo di fantasia in più e non creare un altro dissidente!
Dopo moltissimi anni ho fatto un ulteriore passo nel cammino verso la scoperta dei cowboys italiani. La lettura de Il bacio del brigante di Franco Limardi, un romanzo storico con forti connotazioni noir, mi ha fatto scoprire la figura di Michele Pastorelli, un personaggio conosciuto anche come “il Re della macchia” e molto simile, per carattere e motivazione, ai banditi del vecchio Far West. Pastorelli, pur rimanendo un personaggio di fantasia, è ispirato al brigante Domenico Tiburzi, realmente esistito.
Alla fine, ho trovato la risposta alla mia domanda, nonostante la maestra!
Tra finzione e realtà il romanzo ricostruisce le vicende che portarono alla cattura del temuto brigante. Dopo un tradimento, Michele viene rinchiuso nel carcere di Tarquinia, dove passa due lunghi anni in isolamento. Con il trasferimento allo stabilimento delle saline e l’aiuto di Cortese e il Pretino, due briganti suoi complici, evade e torna nei boschi del viterbese, per vendicarsi di chi lo ha consegnato alla giustizia del Regno d’Italia. Nel tentativo di porre fine alla carriera del brigante, il governo affida la cattura al Maggiore Carlo Alberto Carcano, ufficiale (dei servizi segreti) dell’esercito che ha già portato a termine moltissime missioni delicate per conto del ministero della Guerra. Per la cattura, il militare non sceglie di condurre una caccia all’uomo (in passato molti tentativi analoghi sono falliti), ma adotta una strategia per cui, attraverso l’inganno, cercherà di avvicinarsi al Re della Macchia per farlo cadere in trappola.
Il piano ideato prevede l’arruolamento di Luciano Fiorilli, un brigante che, per amore della moglie Giuditta, ha abbandonato la macchia per una vita onesta, ottenuta grazie all’aiuto del Conte Sarzani.
Il Maggiore Carcano non è l’unico a tessere trame e inganni, molte delle persone coinvolte nella cattura di Pastorelli nascondono dei segreti. Per riuscire a portare a termine la missione dovrà coinvolgere la Contessa Eleonora Berlioz, moglie del Conte Sarzani, al fine di scoprire i motivi e l’identità di chi si oppone alla riuscita del suo piano.
Un romanzo capace di far rivivere la maremma viterbese nelle trame di una storia di vendetta, colpi di scena, inganni ed efferati delitti.
E ora, l’intervista.
Diamo il benvenuto a Franco Limardi qui a Nero Cafè e lo ringraziamo per la sua disponibilità a questa breve intervista.
F.L.: Grazie a te Mirko e a Nero Cafè per l’ospitalità.
Grazie alla lettura del tuo romanzo ho scoperto che anche l’Italia ha avuto i suoi cowboys e questo mi ha aiutato a ottenere la mia tardiva vendetta per la strage delle mie fantasie, anche se non credo che sia questo il vero motivo per cui lo hai scritto.
Il bacio del brigante potrebbe essere a tutti gli effetti un “western italiano”. Cosa ti ha spinto ad ambientare il romanzo in quel preciso momento storico?
F.L.: Purtroppo Mirko, devo infierire sulle tue fantasie, nel senso che nella Maremma di fine Ottocento coloro che risultarono più simili ai cowboys americani furono i Butteri, i mandriani abili cavallerizzi e guardiani di bestiame; i briganti non possedevano nemmeno i cavalli, si muovevano a piedi e così, peraltro, riuscivano a inoltrarsi in zone boschive intricate e di difficile percorribilità, nascondendosi con successo alle ricerche delle forze dell’Ordine.
La scelta degli ultimi anni dell’Ottocento è maturata per il fascino che esercitano quegli anni di trasformazione, di passaggio da un mondo a un altro. In quel periodo avvenivano in Europa e nel mondo profondi mutamenti, sparivano abitudini, stili di vita, costumi e convinzioni, per lasciare posto a qualcosa di nuovo, a volte straordinariamente positivo, a volte terribilmente negativo, come pochi anni più tardi dimostrerà la Prima Guerra Mondiale. Mi interessava raccontare la fine di un mondo, quello “selvaggio” della Maremma e dei suoi briganti, all’alba dell’Italia che si affacciava al Novecento.
Michele Pastorelli di professione brigante è un personaggio in grado di esercitare un fascino spietato sul lettore, ma quanta Storia c’è in lui e in Carlo Alberto Carcano, suo degno avversario?
F.L.: Michele Pastorelli è un personaggio di fantasia ispirato in parte a una figura storica, quella del brigante Domenico Tiburzi, soprannominato “Il re della macchia”, criminale allora conosciuto a livello nazionale; ovviamente, però, mi sono preso molte libertà nel romanzo, nel senso che il mio personaggio assomiglia al vero brigante, ma non è lui. È stata anche la narrazione della morte di Tiburzi a suscitare in me l’idea alla base del romanzo: una morte mai del tutto chiarita, malgrado i rapporti ufficiali; di grande clamore, e che richiamò l’attenzione addirittura di un personaggio allora molto famoso, il dottor Cesare Lombroso, antropologo criminale che si mosse da Torino in tutta fretta per esaminare i resti del brigante.
Per quanto riguarda Carcano, ho immaginato che per catturare un brigante inafferrabile e diabolico, come il mio Pastorelli, ci volesse un “cacciatore” speciale, non un semplice detective, ma una spia piuttosto, un uomo disposto anche a superare il confine tra morale e immorale, pur di raggiungere il proprio scopo. Nasce così il maggiore Carlo Alberto Carcano, impegnato a spiare la costruzione delle fortificazioni francesi sul confine italiano, prima di essere comandato alla caccia del brigante.
Il romanzo non sarebbe completo senza Giuditta e la Contessa Eleonora Berlioz Sarzani; due protagoniste molto diverse tra loro che dimostrano di avere due caratteri che nulla hanno da invidiare ai personaggi maschili. Nel dare una fisionomia a queste due donne ti sei rifatto a qualche modello contemporaneo?
F.L.: Direi di no, perché sia Giuditta, donna del popolo e moglie di un ex brigante, che Eleonora Berlioz Sarzani, contessa e donna elegante e spregiudicata, sono personaggi che esprimono quello che allora poteva essere la ribellione di una donna alle convenzioni e alla regole della società. Giuditta prima convive, poi sposa l’uomo che ha scelto sfidando la famiglia e l’opinione dei suoi paesani, mostrando di credere nelle proprie scelte e nel proprio diritto all’autodeterminazione.
Eleonora, con meno difficoltà, visto il suo ceto sociale, sfida i benpensanti fumando in pubblico e leggendo romanzi, ma anche vivendo liberamente relazioni sentimentali al di fuori del matrimonio che le è stato in qualche modo imposto. Credo che oggi, almeno nella nostra società, le donne manifestino altre istanze e altri comportamenti e avrei trovato fuori luogo forzare atteggiamenti e modelli contemporanei in una vicenda storicamente così determinata.
Dalla lettura emergono diverse concezioni della giustizia; quella controversa rappresentata da Michele Pastorelli opposta a quella segreta e spietata del Maggiore Carcano. Non manca neppure quella di Vincenzo Capotosti, un brigante anarchico innamorato dell’America. Dov’è la giustizia ne Il bacio del brigante?
f.L.: Il brigante vero, Tiburzi, amava ripetere che “Legge e Giustizia non sono la stessa cosa”, affermazione che gli serviva per conquistare il consenso e l’aiuto della popolazione, proponendosi come una specie di “giustiziere” o raddrizzatore di torti per la povera gente. In realtà, poi, facendosi pagare tangenti dai possidenti terrieri, garantiva loro il controllo sui contadini e sulle pericolose idee “sovversive” che allora cominciavano a circolare anche nelle campagne. Allo stesso modo il mio Pastorelli è un uomo che esercita una propria giustizia, finalizzata al mantenimento di un potere; certo un potere limitato, quello su un territorio circoscritto, ma pur sempre un potere e questa particolare giustizia si contrappone a quella del maggiore Carcano che è un uomo dello Stato, che a propria volta esercita una giustizia che è subordinata al potere politico. Quella di Vincenzo Capotosti più che un’idea, è un sogno di giustizia e non potrebbe essere altrimenti per un personaggio così lontano dalle logiche del potere, qualunque esso sia.
Trovo che sia riduttivo inquadrare l’opera in un genere solo. Ci sono elementi storici, ma non mancano le dinamiche tipiche del noir con un rimando agli intrighi politici delle spy stories. Per quanto tempo hai dovuto documentarti sui fatti storici che fanno da sfondo al romanzo e quali difficoltà hai incontrato a scriverlo? Ai giorni nostri c’è ancora memoria di Michele Pastorelli/Domenico Tiburzi?
F.L.: Il tempo impiegato per la raccolta della documentazione e per lo studio della stessa è durato più o meno due anni; devo dire che non ho incontrato grandi difficoltà, anzi, nei ringraziamenti in coda al romanzo ho citato molte persone che a vario titolo mi hanno aiutato nel lavoro di documentazione rendendo il mio compito più agevole. Le difficoltà nello scriverlo sono quelle usuali, credo, che s’incontrano quando tutte le idee che hai raccolto, tutte le notizie, tutti i progetti e gli schemi che hai realizzato, devono fondersi per produrre pagine che contengano le emozioni, i colpi di scena, le avventure, la suspense che hai immaginato.
Di Pastorelli/Tiburzi c’è ancora memoria eccome! Durante le tante presentazioni di questa estate, in quelle che si svolgevano nelle località che avevano visto le gesta dei briganti veri, primo fra tutti Tiburzi, ho incontrato molte persone che mi avvicinavano dicendomi con orgoglio di essere discendenti di briganti, oppure imparentati con il “Re della macchia”. Una sera, una signora mi ha quasi rimproverato di aver parlato nella presentazione di Tiburzi come di un criminale comune, perché a suo avviso, d’accordo con la considerazione popolare che regnava in quegli anni, il capo brigante era stato realmente un portatore di giustizia… il brigante è ancora vivo!
Ringraziamo Franco Limardi della disponibilità e gli auguriamo Buona Scrittura!
F.L.: Grazie ancora a voi per l’ospitalità e per l’augurio!
(Mirko Giacchetti)