Il buio nel cuore, di Silvia Bertozzi

Titolo: Il buio nel cuore
Autore: Silvia Bertozzi
Editore: Fernandel
Anno: 2016
Prezzo: 14,00 euro per il formato cartaceo – 6,49 euro per il formato digitale

Sinossi.

Una ragazzina affetta da gravi problemi di salute, per i quali i medici non riescono a formulare una diagnosi. Una madre psicologicamente disturbata che nasconde un segreto. Una “colpa” alimentata da incubi, rancori e superstizioni. Nella vita dell’adolescente Gaia si alternano buio e luce, le giornate sono sempre in bilico tra sogno e realtà. Unica via di fuga sembra essere l’amicizia di Emma e Angelica – bellissime e solari, tanto diverse da lei – e il tormentato amore per Jacopo, un ragazzo sbruffone e dalla forte spinta autodistruttiva. Ma tutto ciò non le basterà, perché il carico di dolore che Gaia deve portare è troppo pesante.
Vent’anni dopo, abbandonata ogni cosa per rifugiarsi in una villa immersa nel bosco, Gaia è ancora una ragazzina impaurita e sola, in balia di un mondo visionario che continua a tormentarla.

La recensione di Nero Cafè.

«Hai presente la favola di Barbablu?» chiese.
«Non proprio».
«Barbablu consegna alla moglie un cofanetto di chiavi che aprono tutte le porte del castello, ma le raccomanda di fare attenzione: c’è una stanza in cui lei non deve entrare per nessun motivo, una stanza che nasconde un segreto».
«E lei invece ci va» continuò Jacopo.
«Esatto. Devi sapere che anche Villa Ligeia nasconde un segreto».
«Divertente. È una caccia al tesoro?»
«Una specie».

Rachele, mia figlia, è ed è sempre stata una bambina molto brava, mite, silenziosa ma di indole allegra. A pochi mesi due sole cose la facevano uscire completamente di senno: i rumori molto forti e l’automobile. Dopo cinque chilometri cominciava a emettere deboli ma decisi lamenti, dopo dieci piangeva a intermittenza, dopo venti non riuscivo a sentire nemmeno la mia stessa voce all’interno dell’abitacolo. L’unico modo per spezzare (anche se per poco tempo, il tempo di riprendersi mentalmente) i suoi ululati era… cantare. Cantare, cantare e ancora cantare. Cantare come se ne fosse andata della mia stessa vita. E in effetti, forse, era proprio così.
Comprai decine di cd musicali. Dallo Zecchino d’oro alle canzoni popolari, dalle colonne sonore Disney ai motivetti usati durante la trasmissione televisiva “La prova del cuoco”, la musica per infanzia non aveva più segreti, per me.
Pensavo che certe cose si dimenticassero. Invece no.
Se anche si dimenticano, loro ti vengono a cercare.
Il grillo, la formica e il loro lariciunfarallillalero sono tornati. E non per rallegrare, non per fermare un pianto, non per togliere angoscia dal cuore, non per distrarre, ma come nenia terrifica e oscura, malata e impregnata di un odore penetrante e cattivo come la morte.
Gaia lo sa bene. Da quando è molto piccola sente quella sciocca canzone continuamente. Sua madre la canticchiava senza sosta aspettando il papà col viso premuto contro il vetro della finestra. Se l’uomo non avesse varcato la soglia prima della strofa nella quale il grillo si rompeva il cervello, allora significava che era successo qualcosa di molto grave. Del resto sarebbero successe disgrazie anche se Gaia avesse incrociato le posate sulla tovaglia o se si fosse alzata dalla sedia a dondolo senza prima fermare il suo oscillare. Già fragilissima e dall’equilibrio instabile, la madre peggiora gravemente dopo la morte del marito, un uomo buono e gentile, umile e innamorato della sua unica figlia, Gaia, ora rimasta sola con una madre che ben poco ha da offrire a quella bambina che adesso più che mai avrebbe bisogno di presenza, lucidità e amore sconfinato.
Ma gli anni passano e le cose sembrano peggiorare un po’ per tutti.
Sempre meno rimane della donna, perduta tra i fumi del passato e quelli chimici dei medicinali che assume continuamente.
Sempre meno rimane anche di Gaia, ora diciassettenne con un corpo bambino incapace di crescere. Gaia non mangia, e se mangia vomita. A volte sangue. I ricoveri non si contano, i medici hanno le mani legate, di patologie non ce ne sono. Gaia è, a tutti gli effetti, sana. Stress, le dicono. Consigliano vacanze, consigliano l’allontanamento temporaneo dalla casa materna, consigliano divertimento, amici, sollievo dell’anima. E Gaia, in vacanza, sembra rinascere grazie alle sue amiche del cuore, all’aria buona, al buon cibo che impara ad apprezzare e all’amore di Jacopo, quel ragazzo misterioso e dal passato incerto che, finalmente, le insegna cosa significhi sentirsi amati e protetti.
Ma il ritorno a casa è dietro l’angolo. Lo stomaco si chiude, la nausea torna potente come l’odore del cibo che sua madre si ostina a cucinarle, quell’odore che appesta tutto, anche i suoi vestiti e la sua pelle, che non la fa respirare e che le provoca conati impossibili da fermare.
Cosa sta succedendo a Gaia? Perché è destinata a non crescere? Perché si sente morire, giorno dopo giorno? Perché il suo corpo sembra accartocciarsi su se stesso? Lei vorrebbe vivere, lo vorrebbe proprio tanto. Eppure qualcuno o qualcosa sembra impedirglielo e il rumore di quella sedia a dondolo entra nei suoi sogni, nei suoi pensieri e nella sua vita sporcando tutto di nero e di terrore al suono di quella nenia terribile, di quel grillo e di quella formica, di quel lariciunfarallillalero che sembra una promessa di morte.

Il buio nel cuore è un thriller psicologico dal plot abbastanza classico ma dal ritmo piuttosto atipico. L’autrice pare non avere nessuna intenzione di scoprire le sue carte e per buona parte del romanzo ci si chiede dove si stia andando e dove mai si andrà a finire, guidati dalla penna della Bertozzi. Ci si chiede, anzi, per dirla tutta, se si tratti davvero di un thriller.
La confusione nasce dal fatto che il ritmo cadenzato e il lento susseguirsi degli eventi tendono ad avere sul lettore un effetto ipnotico, obnubilante e decisamente straniante e se dalle pagine del romanzo pare uscire quella puzza che ammorba l’aria della casa di Gaia, la voce stridula della madre risuona potente nelle orecchie.
Non è sulla velocità dell’azione che si punta, quindi. Non c’è quel ritmo serrato che contraddistingue certi thriller, anche psicologici, o certi gialli. Esiste, semmai e senza dubbio, la voglia di creare un grande (e centratissimo!) cappello introduttivo per una chiusa spettacolare e terrificante, atmosfere deliziosamente creepy e goth, personaggi e situazioni maliziosamente borderline.
Consigliato a tutti gli amanti di una certa letteratura di genere d’antan che non potranno che chiudere il romanzo con un sorriso estatico sul volto, soddisfatti e appagati.

(Caterina Bovoli)

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