Senza speranza, di Marco Lomonaco
Sandro, pressato nella sua ridicola uniforme gialla da banditore, salì ansimante i gradini del trespolo di fronte all’imponente cancello in ferro battuto: in una mano un rotolo di finta pergamena, nell’altra un telefono cellulare.
«Attenzione madame e messeri, appropinquatevi» urlò con voce profonda «il mio signore, messer Vuschini, conte di San Rocco, è lieto di invitare le signorie vostre alla fiera rinascimentale sulli verdi prati dello suo maniero» concluse con una profonda riverenza, indicando con la pergamena l’ingresso alle proprie spalle.
La fiumana di gente sbucava senza fine da dietro la torre Mirantea in quella soleggiata mattinata di maggio. Famiglie, coppiette, comitive, erano tutti diretti alla fiera, unico evento rilevante nell’altrimenti grigio destino ricorsivo del piccolo borgo, noto ai più solo per la presenza del carcere sulla collina. Di tutte quelle persone, neppure una lo degnò di uno sguardo, tutte intente a contemplare la grande torre o a sbirciare oltre i cancelli.
Invisibile. Solo e invisibile.
All’improvviso un sasso gli centrò in pieno una rotula e lo fece rovinare a terra tra la ghiaia, il palmi scorticati e un rivolo di sangue che gli colava sulla fronte. Un gruppo di ragazzini scappava tra le risate: «ehi, tu, ciccione, prova a prenderci se ci riesci, chissà che non dimagrisci».
Non c’è nessun futuro, nessun maledetto futuro. Non per me, non per voi, tutti voi.
Osservò con apprensione il telefono, era ancora intatto. Una lieve pressione sullo schermo e aprì la rubrica, non dovette nemmeno cercare, era salvato come AAA. Il dito scorse verso destra lasciando una scia di sangue sul vetro e partì la chiamata.
«Perdonami, fratello».
Nel buio del primo piano sotterraneo della torre Mirantea, a ridosso delle fondamenta della parete di sud-ovest, il display del vecchio 3310 si illuminò di verde, l’impulso elettrico che avrebbe dovuto dare vita alla suoneria venne dirottato dai due sottili fili saldati a mano e raggiunse in un attimo la serie di quattro detonatori infilati nella mistura di nitrato di ammonio, carbone e alluminio.
L’esplosione fu violenta, macigni delle dimensioni di uno scooter schizzarono ad altezza d’uomo investendo la folla attorno alla torre. In pochi istanti il marciapiede mutò in un’epifania di brandelli sanguinolenti.
Pochi secondi e il resto della torre, orfana di due dei muri portanti, crollò in un rombo assordante che annichilì ogni residua briciola di speranza nei sopravvissuti.
Sommerso dalle macerie, il banditore esalava l’ultimo respiro, dipinto sul volto un sorriso che aveva il gusto amaro della liberazione.
Dalla cima della collina, a poche centinaia di metri dal castello, un uomo stava aggrappato alle sbarre a ridosso della finestra della sua cella, lo sguardo fisso nel vuoto, le labbra tese in una smorfia rassegnata, attorno agli occhi le rughe di chi ha visto troppa sofferenza, poi ne ha vista ancora.
Si sfilò lento i lacci delle scarpe, poi quelli dei pantaloni, e li annodò assieme a formare una fune lunga qualche metro da cui ricavò un rozzo cappio. Lo assicurò al limite più alto delle sbarre della finestra, ne saggiò la resistenza con la mano. La luce che penetrava dall’esterno proiettava sul muro un’ombra grottesca, nera come la sua coscienza, solitaria come la sua esistenza.
Si mise in piedi su uno sgabello, infilò il collo nel cappio e, con gli occhi rivolti al cielo, sussurrò: «Perdonami, fratello».
48 ore prima.
«Carlo, non ce la faccio più». Sandro si coprì il volto con le mani, si vergognava di piangere davanti al fratello. «Non ho più nemmeno i soldi per mangiare».
Da dietro il vetro corazzato, il fratello lo osservava triste, si premette la cornetta all’orecchio per cercare di stargli più vicino. «Dai, Sandro, coraggio. Tra meno di sei mesi esco di prigione e poi ci penserò io a te, non ti preoccupare. Penserò a tutto io» tentò di rassicurarlo come poteva.
«Sei mesi, e che cosa farò io in questi sei mesi? Come sopravvivrò?» Le gote di Sandro si rigarono di lacrime disperate, la voce gli tremava. Cercava conforto nell’unica persona che gli era rimasta a questo mondo.
«Dai, hai un diploma in elettronica, una laurea in chimica, troverai presto un nuovo lavoro, fidati».
«Un lavoro?» rispose furioso Sandro «non c’è nessun lavoro per me, ho fatto mille richieste, mi guardano tutti dall’alto in basso prima di sfoderare i loro “ci dispiace, non abbiamo bisogno”, o “lei è troppo qualificato”. Capisci? Troppo qualificato per fare dei merdosi panini in un fast food. Dovrei ammazzarli tutti, una bella bomba e boom. Così imparerebbero a trattare la gente con dignità. Li devo uccidere tutti».
Lo sguardo di Sandro era folle, gli occhi sgranati e le labbra tremolanti: Carlo non fece nemmeno in tempo a decidere cosa rispondere che la guardia strappò dalle mani di Sandro la cornetta e la riattaccò mentre, sulle sue labbra, si disegnava un feroce “tempo scaduto”.
Carlo gridò: «Sandro, no!»
Ma le sue speranze si infransero sul vetro corazzato a isolamento acustico.
Sandro, no.