Capriccio numero tredici, di Paolo Di Pierdomenico

Per il suo tredicesimo compleanno avevo regalato a Lucas una consolle di giochi. Michela disapprovava: potenziale distrazione.
Abbandonata la console, Lucas era in sala, ad esercitarsi al violino. La malinconia di un capriccio di Paganini. Michela era sulla porta. La raggiunsi e sussultò quando le toccai la spalla. Era tesa, assente.
Osservai Lucas. In piedi davanti al leggio, il collo piegato sulla cassa armonica dello strumento, gli occhi rapiti dallo spartito di carta ingiallita. Sembrava antico, scritto a mano. Lo immaginai al centro del palco di un grande teatro, sfolgorare sotto i riflettori. Come al concerto a Berlino. E mi tornò in mente quell’uomo. Un soggetto a dir poco strano, che aveva avvicinato Michela dietro le quinte, prima del concerto. Alto, ossuto. Completo scuro. Un parrucchino nero con la riga di lato, un paio di occhiali spessi. Baffi dritti, labbra sottili, barbetta. Chiamava Michela, agitando una mano. Lei aveva finto di non sentirlo e mi aveva trascinato via quasi correndo fino ai nostri posti in platea. Quando le chiesi chi fosse, cambiò discorso. E provai una sgradevole sensazione: quell’uomo l’avevo già visto, forse anni prima, ma non ricordavo altro.
Il capriccio, dopo un respiro, cambiò ritmo e passò a una successione di note rapide, drammatiche. Lucas agitava l’archetto e pigiava di scatto le dita sulle corde. In quel momento, oltre vetri della finestra che dava verso il giardino, vidi il volto di quell’uomo, il suo parrucchino, baffi barba occhiali. Un brivido mi salì lungo la schiena, mentre le note del violino si inseguivano in frenetiche scale discendenti.
Non potevo crederci, ma lui stava lì fuori, nel giardino, come evocato dai miei pensieri, e guardava Lucas.
Ricordai tutto.

Oggi ho una casa con piscina. Soldi, salute, amore, e Lucas, un bambino speciale con un dono per la musica. Tredici anni fa, era tutto diverso.
Il vizio delle scommesse era una droga. Il 13 aprile, il giorno che nacque Lucas, piazzai una forte scommessa, e persi tutto. Io, Michela, mio figlio appena nato: rovinati.
Trenta, quaranta chilometri di autostrada. Prendi un’uscita, trovi un pub qualunque, ti siedi a un tavolo in fondo e ordini J&B. Lo facevo spesso, l’ho fatto quella notte. L’avevo dimenticato, però, ora, mi ricordo di lui. Calvo – niente parrucca, né occhiali, né baffi – ma la stessa barbetta. Un foglio di carta ingiallito davanti a me, sul tavolo. La sua voce: un tredici al totocalcio, salute, felicità. E in cambio… mio figlio, al suo tredicesimo anno. Tredici per tredici, e siamo pari, dice. Mi porge la stilografica per firmare. Esito, ma alla fine butto la penna nel bicchiere, un rivolo di inchiostro imbratta il liquore dorato. Vado via.
Da quella sera niente scommesse, né drink. Quello che possediamo io e mia moglie l’abbiamo costruito col lavoro.

La finestra si spalancò e fogli dello spartito volarono ovunque, mentre la musica diventava un crescendo ossessivo.
Urlai: «Vattene!»
Lucas abbandonò la testa all’indietro e vidi solo il bianco dei suoi occhi, le sue ginocchia si piegarono ma l’archetto e le dita non cessavano di suonare. Poi crollò a terra morto.
L’uomo scavalcò la finestra.
«Non ho firmato», piansi.
Si accucciò, raccolse un foglio e me lo porse. La grafia di una penna stilografica, un assurdo contratto, e in fondo, la firma di Michela.