Vanishing on 7th Street, di Brad Anderson
Questo film sarebbe potuto essere migliore.
Iniziare una recensione con questa frase lascia immediatamente presagire il senso di delusione che ha percorso i capillari del Terzo Occhio.
È così in effetti.
Eppure i presupposti perché fosse un buon film c’erano tutti. L’idea di partenza, la scomparsa di un’intera popolazione nel nulla, ombre che si muovono sussurrando per portarsi via i superstiti nel buio. Quella percezione claustrofobica che avvince il lettore. Allo stesso tempo, però, le carte giocate non si sono dimostrate all’altezza.
Innanzitutto i personaggi. Non ce n’è uno – che sia uno – con cui si empatizza. Hayden Christensen è algido, cupo, perfino antipatico. Joe Leguizamo interpreta un commesso la cui unica funzione è quella di riferire della leggenda della scomparsa dell’antica colonia di Roanoke. Thandie Newton – per certi versi irriconoscibile – incarna il ruolo di una madre alla disperata ricerca del figlio perduto, che non fa altro che interrogarsi sul perché siano stati scelti loro per affrontare quell’orrore. Il giovane Jacob Latimore veste i panni di un ragazzino in attesa del ritorno di sua madre, uscita e mai più tornata, elemento che sembra fare da collante agli altri personaggi, troppo diversi tra loro per convivere.
Malgrado per tutto il film gli stessi personaggi continuino a domandarsi “perché proprio noi?”, inseguendo oscure risposte circa un improbabile disegno divino, non viene data risposta allo spettatore. Non si comprende perché venga sollevata la domanda se, poi, si sceglie di non rispondere. Si parla di sussurri di anime, di fantasmi, di gente morta, che chiama i vivi di là con loro, ma non viene chiarito se ciò possa essere un bene o un male.
Troppe cose non dette e un film che non riesce a coinvolgere. Come si dice dalle mie parti, “non si arriva a dama”.
Due coltelli.
(Daniele Picciuti)