The son of no one, di Dito Montiel

Un film che è pesante come un macigno. Ma di quella pesantezza che è spessore, che ti rimane nello stomaco come un nodo stretto forte.

È come assistere a un viaggio a ritroso nell’inferno personale di un agente di polizia che ha fatto del proprio silenzio un’armatura. E, al di sotto, un’anima che si agita inquieta, tra il rimorso e la voglia di dimenticare.

Channing Tatum è una maschera impassibile per tutta la durata del film. Ma è richiesto che sia così. Il suo personaggio, di fatto, sembra restare impassibile di fronte al precipitare degli eventi, eventi che lo riguardano e da cui non sa come sottrarsi. Eppure, sotto, è tutt’altro che impassibile. Ma questa sua maschera, armatura, questo strato inossidabile dietro cui si nasconde, finirà inesorabilmente per crollare. Deve succedere, se non vuole perdere la sua famiglia, la propria dignità, un’amicizia perduta.

Il cast annovera diversi nomi di rilievo (Al Pacino, Juliette Binoche, Ray Liotta, Katie Holmes, Tracy Morgan), tutti perfettamente al loro posto nei ruoli in cui sono inseriti. Tutto gira come un perfetto meccanismo ad orologeria, ma sono i flashback il vero cuore di questo film, quel passato che vede due ragazzini, figli di nessuno (anche se in realtà uno solo lo è veramente) in lotta per la sopravvivenza, in un quartiere che potrebbe trangugiarne anche l’anima, invischiati in due misteriose morti.

Un film che ha tratti noir nel suo essere disfattista. Un film che colpisce nel segno, anche se va digerito lento.

Tre coltelli.

(Daniele Picciuti)