Recensione: Il ritorno del Diavolo
“Il ritorno del Diavolo” di Giovanni Merenda (Scrittura & Scritture)
Il commissario Martino viene chiamato a indagare sulla morte di Aldina Giunita, ricercatrice universitaria e sua vecchia fiamma. Le indagini sembrano ruotare attorno al manoscritto di un esimio professore, volto a smascherare finti occultisti e sacerdoti di presunte sette sataniche.
Dapprima Martino pensa di essere alle prese con la vendetta di uno dei personaggi che compaiono nel libro, ma non tutto è così semplice come sembra e lo scoprirà scavando nel passato di Aldina.
Questo libro ha dalla sua un marcato umorismo, dialoghi scoppiettanti, che riescono a coinvolgere il lettore dalla prima all’ultima riga. Tale punto di forza si rivela, tuttavia, essere anche la maggiore debolezza dell’opera, in quanto compromette irrimediabilmente il taglio giallo che invece dovrebbe essere dominante, trattandosi di un’indagine su un omicidio.
Il commissario Martino non pare mai accusare il colpo della morte di Aldina, non come ci si aspetterebbe in una situazione reale, nella quale la vittima fosse, non solo una conoscente, ma addirittura una persona a cui si è stati affettivamente legati.
Le indagini si svolgono con poca chiarezza, prendendo svolte inaspettate che il lettore non può in nessun modo prevedere, aiutate oltretutto dalla comparsa improvvisa di indizi che saltano fuori al solo scopo di spiegare le azioni di Martino, che arriva alla soluzione del caso grazie a intuizioni in pieno stile deus ex machina.
Numerosi siparietti strappano qua e là un sorriso, ma si finisce col pensare “ok, e allora?” perché le diverse pantomime messe in atto dai vari Di Blasi, Orlando e Martino stesso, non bastano a soppiantare la debolezza strutturale del libro. L’impressione è che tutto si riduca a poco più di un copione per una sceneggiatura. I personaggi sopra citati ricordano i più noti Ingargiola, Lombardi e Parmesan di Distretto di Polizia, e quest’idea viene accentuata dalla quasi totale mancanza di descrizioni fisiche, che l’autore lascia all’immaginazione del lettore.
Caratterialmente Martino è l’unico ad avere una certa personalità, mentre gli altri si confondono tra loro come copie senza spessore di una figura tipo che ricorda il classico agente di provincia impreparato a un omicidio e neppure troppo sveglio. Persino quello che dovrebbe essere il cattivo risulta inesistente, non avendo neppure modo di mostrarsi per quel che è, né tanto meno emergono le sue motivazioni, scomparendo nel grigiore generale come un assunto delle deduzioni finali.
Anche gli ambienti sono appena accennati, quasi tutti da immaginare. Non vi sono richiami a odori, sapori, suoni che permetterebbero una maggior assimilazione dei luoghi.
A livello stilistico, la narrazione appare sporcata da un uso eccessivo di puntini di sospensione e da ricorrenti ingerenze del narratore. I dialoghi sono invece indovinati, viene mantenuto un tono dialettale e per lo più goliardico che strappa diversi sorrisi, rendendo la lettura piacevole.
In conclusione si tratta di un romanzo breve che pur leggendosi d’un fiato non appassiona, e a fine lettura non lascia quasi nulla. Un buon giallo, perché funzioni, deve consentire a chi legge di arrivare a risolvere il caso assieme a chi segue le indagini, pur con tutte le difficoltà che questo comporta. Una conclusione fin troppo intuibile, rende impossibile tale immedesimazione e non aiuta a digerire la sensazione di essere incappati nella bozza di una fiction piuttosto che in un libro giallo. Assegniamo un coltello. (Nero Cafè – Daniele Picciuti)
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