Il serpente dorato, di Veronica Elisa Conti

Il più delle volte, la risposta non è altro che ciò che ci si vuole sentir dire.
Stati Uniti, Louisiana. Lo stato delle paludi, della schiavitù, dei creoli e dei loro riti, a metà tra il mistico e il satanico. Mentre indaga sulla misteriosa scomparsa di una bambina, svanita nel nulla mentre stava, apparentemente tranquilla, chiusa nella sua cameretta, l’investigatore privato Webster muore, apparentemente per cause naturali. Darrell Faulkner, suo vecchio allievo, ne prende il posto nelle ricerche. Venendo a contatto con la famiglia della piccola sparita, si imbatte in uno strano ambiente fatto di falsi medium, parassiti, dark ladies e dolori infiniti. Simbologie esoteriche ed erpetologhe emergeranno direttamente dai suoi sogni, fino a portarlo verso un evento analogo, avvenuto quasi un secolo prima, quando un altro piccolo sparì in circostanze molto, troppo simili. Mentre, attorno a lui, chi potrebbe sapere diventa nuova vittima di questo stano sortilegio, per progredire nel caso Faulkner, il detective che sogna Hollywood e cascate di sangue dovrà prescindere dalla razionalità, calandosi nello spazio occulto e immateriale che avvolge l’intera vicenda.
Il serpente dorato parte in modo piuttosto stentato. La prosa è eccessivamente spezzettata da periodi troppo brevi, limitata da troppe sintesi e sottintesi, a volte, perfino, resa angolosa da una punteggiatura fuori fuoco. L’aggettivazione poco fantasiosa e la descrizione ambientale quasi assente poi, non colorano la narrazione, che appare di un costante grigio di fondo. Man mano che la vicenda si sviluppa, però, la lettura inizia a diventare avvincente. La trama si muove sinuosa, esattamente come un serpente, arricchendosi progressivamente di nuovi elementi che aggiungono intensità. Sì, perché il romanzo è vivo, simile al rettile del titolo, si insinua strisciante attraverso le righe scritte, suscitando man mano interesse. Le figure che si muovono al suo interno sono schizzi di colore acceso, poco analizzate in profondità, ma pennellate con modi estremi, o tutto o niente. E non stupisce che il libro prenda coerentemente pieghe sempre più trascendenti, fuori dalla logica materiale, nonostante i protagonisti si sforzino per restare sulla terra. Fino ad arrivare alla chiusura del cerchio che, per forza di cose, non può che essere fragorosa e delirante esplosione.
Il serpente dorato può dirsi un sinfonico crescendo, dove le atmosfere volutamente cupe e accennate rendono la lettura avvincente, nonostante qualche piccola zoppìa. E il finale assonante unisce le pagine con un mastice asciutto e resistente.

Tre coltelli e mezzo.

(Giovanni Cattaneo)

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