Chimera, di Mitzi Peirone: quando la follia diventa arte
La storia di come Chimera (Braid) sia riuscito a venire alla luce ha dello straordinario, se si pensa che la giovane regista italiana Mitzi Peirone, a soli 19 anni ha lasciato l’Italia per approdare negli States, riuscendo a mettere insieme il budget per il suo film grazie a una campagna crowdfunding in criptovalute e trasformando, di fatto, le donazioni in investimenti.
Se questo non bastasse a inquadrare il tipo di persona intraprendente che è Mitzi Peirone, passiamo alla sceneggiatura, alla fotografia, alla visione registica del suo film, che sono a mio modesto avviso straordinari. Intendiamoci, Chimera non è un film facile, proprio per niente, è cinema indie allo stato puro, uno sfarfallio di coriandoli durante un carnevale, una fanfara nel deserto, una sadica disanima della mente umana, la discesa negli Inferi di tre anime affatto pure, legate tra loro da quella treccia (braid) che non è soltanto nel ricordo malato delle bravissime protagoniste, ma un’espressione figurata di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare.
Ma andiamo con ordine. La trama – apparente – è questa: due amiche, Petula (Imogen Waterhouse, vista in Animali notturni, The Outpost) e Tilda (Sarah Hay, vista in Flesh and Bone), in fuga dalla polizia a seguito di una retata per droga, devono ripagare i loro spacciatori per la merce perduta e decidono così di far visita a una loro amica di infanzia, Daphne (Madeline Brewer, vista in Cam, The Handmaid’s Tales, Hemlock Grove), per derubarla. Daphne vive infatti in una villa sfarzosa ed enorme, da sola, nel mezzo del nulla, cosa che la rende una preda perfetta.
Ho parlato di trama apparente, e c’è un motivo. Fin dall’arrivo delle due amiche alla villa, si entra nel “mondo” di Daphne, un mondo fatto di finzione, dove Petula impersona “il dottore” e Tilda “la figlia”, mentre Daphne è “la mamma”. Il gioco di Daphne ha tre chiare e semplici regole: tutti devono giocare, non sono ammessi estranei e nessuno può abbandonare la partita. Poco importa se il gioco, a un certo punto, può farsi sadico e violento, né che ci scappi il morto. Siamo nel gioco, e lo saremo fino alla fine del film.
Da questo momento lo spettatore viene catturato da un vortice onirico in cui la realtà e la finzione si mescolano, alternati a frammenti di ricordi e allucinazioni causate dalle droghe che le ragazze assumono, al punto che davvero si fa fatica a capire cosa stia accadendo, cosa sia vero e cosa no. Soprattutto verso la fine, quando le scene si fanno frenetiche e gli eventi collimano scontrandosi e rivelando verità o finzioni dentro altre verità o finzioni (non ci è dato trovare certezze in questo) si viene letteralmente assorbiti dalla morbosità della mente di Daphne, anche se a questo punto sorgono domande del tipo: ma è davvero la sua mente, o è quella di una delle altre due ragazze? O, ancora, come potrebbe suggerire il titolo stesso (sia nella sua forma originale che in quella tradotta), sono le menti legate, simbiotiche, di tutte e tre che stiamo guardando con manifesto stupore?
Il film non è adatto a chi cerca coerenza e logica in una trama. Chimera è un progetto a se stante, che sembra vivere una propria realtà, è una chiara espressione artistica di un qualcosa che Mitzi Peirone aveva dentro e sentiva il bisogno di comunicare al mondo, un qualcosa che – oggi – non è così scontato che lo spettatore possa riuscire ad apprezzare, incastonato com’è nel mondo delle serie tv e dei franchising, in cui le trame orizzontali la fanno da padrone. Personalmente, ho trovato Chimera un vero gioiello, ma per palati fini, se così vogliamo dire, proprio per la sua difficile digestione.
Straordinarie a mio avviso le tre protagoniste, a loro agio nel muoversi in un mondo delirante e malato, riescono a dare il meglio di sé, nessuna esclusa. Memorabile la scena in cui Petula si rade sulle note di Figaro.
La fotografia e il montaggio sono encomiabili, la gestione dei colori e delle inquadrature, le velocità alterate, le istantanee folli che sembrano ritratti d’epoca deturpati dalla pazzia lasciano il segno e inducono disagio e meraviglia nel modo che, ritengo, era nelle intenzioni della regista. D’altronde niente viene lasciato al caso, il filtro viola utilizzato per le visioni indotte dalle droghe ne è l’esempio più lampante.
Quanto al finale, vi domanderete cosa significa. L’ho fatto anch’io e vi assicuro che non smetterete di farlo, anche dopo aver curiosato su internet alla ricerca del significato del finale e aver trovato le interviste alla regista. Anche questa è la bellezza di Chimera: è tutto talmente interconnesso che persino la cosa più assurda e all’apparenza incoerente, trova in realtà una collocazione in questo strano e folle progetto.
Quattro coltelli.
(Daniele Picciuti)