L’inverno della paura, di Dan Simmons
Non sono uno spettro. Quando ero vivo, non credevo nei fantasmi, o nel fatto che lo spirito possa sopravvivere alla morte. Se dovessi descrivere il mio stato esistenziale attuale, direi che sono una ciste di memoria.
Dale Stewart, professore universitario e scrittore. Scampato a se stesso e a un tentativo di suicido. Caduto in un vortice buio, a causa di una liason con una studentessa che ha lasciato solo dolore e distruzione nella sua psiche e nei suoi affetti. Fugge lontano, nei luoghi della sua infanzia, per provare a ritrovare il bandolo della sua vita. Sistemandosi, solo, nella grande casa dove, in una calda estate di 40 anni prima, il suo taciturno e geniale amico ha perso la vita in circostanze perlomeno oscure. Inevitabilmente, rivive, quasi tocca con mano, i fantasmi di quell’epoca remota, vivendo i suoi incubi peggiori, in un viaggio attraverso la propria coscienza, inconsapevole espiazione di colpe mai commesse. Un gruppetto di battaglieri skinheads lo riporta, bruscamente, violentemente, alla realtà. Combattere? Lasciarsi sopraffare? Da loro, da se stesso, dal passato? Sostando sulla soglia del Regno dei Morti, a un nulla dall’entrarvi o dall’uscirne, Dale rivivrà i personaggi del suo passato e del presente, guidato, protetto, preso per mano, dall’alter-ego più improbabile. L’unico in grado di scacciare i suoi fantasmi per sempre.
Romanzo davvero complesso, questo di Dan Simmons. Certamente ambizioso, ricchissimo di citazioni, da Henry James a Beowulf, da Proust a Twain. Con riferimenti all’Antico Egitto, all’Italia, al decadente universo dei Nativi americani. Pertinenti, significative. Dalla struttura narrativa a più piani temporali, intersecati fra loro come un puzzle. In sottile equilibrio tra realtà e immaginazione, tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti, come una lunga gita in barca sullo Stige. La narrazione è impostata con uno stile che, azzardatamente, si può definire in “doppia prima persona”, partendo dal punto di vista di Dale e del suo protettore-protetto Duane con la scelta di nomi quasi assonanti forse non casuale.
Ma cosa resta al lettore di quest’opera? Le sensazioni sono abbastanza contrastanti. L’avvio risulta stentato, troppo elaborato, privo di quell’immediatezza che induce ad immergersi nudi nella lettura. Stile decisamente poco ritmico, non certo accattivante. Man mano che si va avanti però, il puzzle inizia a prendere forma, i singoli pezzi vanno pian piano a posto provocando davvero quella sensazione di piccola soddisfazione tipica dei lavori a mosaico, e la vicenda si fa avvincente, fino a un epilogo lirico e coerente. Probabilmente, concausa del difficile inizio è proprio quella “doppia prima persona” che, volutamente ambigua, crea disorientamento, non sapendo in realtà se si tratti della visione di Dale o di Duane. Forse, in un libro così complesso, sarebbe stata più funzionale una scelta di punto di vista più netta. Come succede, per fare un esempio, in Amabili resti, per chi l’ha letto.
Sostanzialmente, un’opera a metà, che sale in crescendo. Se si superano indenni le prime 150 pagine, si entra davvero in una dimensione noir che è totalizzante e vi terrà incollati alla lettura, e redenti nel giudizio. Da leggere in mezzo a tanta gente, che parla, si muove, agisce, e lontano da ogni sorta di canidi neri….
(Giovanni Cattaneo)