Divieto di soggiorno, di Simone Sauvage e Andrè Helena
Condannato. A varcare quella soglia dove l’aria è immota, dove anche l’uomo più onesto o è contaminato o cade, definitivamente. E dopo? Riabilitazione? Impossibile, si è marchiati a fuoco, giudicati per il passato e per il futuro. Una sola via. Che non ha uscite d’emergenza. E che costringe a non esser più nessuno, insetti nell’ombra in attesa di avventarsi sui rifiuti.
Parigi, anni ’50. Simon è un uomo onesto. Lavoro, rettitudine, mediocrità, ma anche tranquillità. Finché arriva lei. Bellissima, sensuale, dolcissima. Susy. Una coppia che nasce. Innamorata, tenera, sognante. Ma lei? Prova a tener lontano il suo uomo da quello che è davvero, da quello che le gira attorno. Ma la sua vita, il suo mondo, non può stare a guardare. Tira dentro Simon, suo malgrado. Che diventa vittima prima, ingranaggio, poi. In una duplice, serrante, morsa. Da un lato la Mala, dall’altro la polizia. Soffocato da un divieto di soggiorno che diventa zavorra insopportabile. Per poter vivere nell’unico modo, accanto alla sua Susy. Che lo adora, prova a proteggerlo, a difenderlo. Quando un uomo è marchiato però non può essere né protetto né difeso. Scivola, inesorabilmente, verso l’abisso.
Divieto di soggiorno è un romanzo del 1955 scritto a 4 mani da Simone Sauvage e Andrè Helena, ex recluso. In esso si respira a pieni polmoni l’atmosfera della Ville Lumiere anni ’50, fatta di romanticismo e perdizione, amore e malavita, musiche gentili e malinconiche. La vicenda quasi kafkiana di Simon, onesto cittadino tirato dentro l’illegalità quasi a forza, viene resa con partecipazione diretta, vissuta, soffocante. Inquieta la facilità, la consequenzialità del passaggio dall’essere un onesto cittadino ad un reietto senza via di scampo. Sembra davvero tutto troppo semplice per essere falso. E il ritmo che si può osare definire a spirale, avvitato, funziona alla grande. Certo, il romanzo è datato e si sente. La mala è un po’ macchiettata, c’è il corso, l’algerino, il marsigliese, la prostituta innamorata, che diventa quasi stucchevole nella sua cieca devozione all’uomo che ama. Esagerata nella sua condiscendenza. Ma era il 1955, forse si usava così, forse le donne non avevano diritto di parola e di pensiero in certi ambiti. Quello invece che davvero stona è il linguaggio utilizzato. Una traduzione dei dialoghi davvero “oratoriani”. Una prostituta che pensa male di un boss, non lo fa nei termini “quel farabutto, che porcheria stava architettando”! Nemmeno un accademico della crusca vede scorrere i suoi pensieri rabbiosi in questo modo! Siamo nel 2012, anche se l’originale fosse stato così edulcorato, per necessità censorea dei tempi, credo che una svecchiata, un’adattata fosse oltremodo necessaria. Altrimenti, così, tutto il romanzo viene ad odorare di stantio, ed è un peccato, perché di spunti positivi ne avrebbe davvero molti.
Leggibile, soprattutto da anziane, educate, colte signore sedute davanti al focolare. Che sognano ancora davanti a un così grande amore. Avremmo molto da imparare da loro, noi tutti.
(Giovanni Cattaneo)