La paziente n. 9, di Alessandro Defilippi

La paziente n. 9, di Alessandro Defilippi
Mondadori, 2012
316 p.
Genere: thriller storico

Dalla quarta di copertina. Genova, 1942. Un colonnello dei carabinieri tormentato da un rimorso divorante. Un giovane psichiatra tedesco dagli occhi azzurrissimi e profondi, che nasconde un indicibile segreto. Un tetro manicomio, nella pace delle colline che si affacciano sul mare. Una donna bellissima e molto amata, preda di un demone oscuro che la induce a dipingere sul muro con il suo stesso sangue. Una serie di omicidi efferati. L’ombra della guerra, che si allunga su tutti come l’ala nera di una più grande follia. E la TEC, appena diventata di moda: terapia elettroconvulsivante. Elettroshock. Occhi imploranti, occhi spietati, occhi spalancati per il terrore. C’è poco tempo per fermare la follia che cresce. […]
La quarta di copertina continua dicendo che questo è un “ romanzo dal ritmo serrato, che mozza il fiato”, invece ci si trova davanti a un’opera dai ritmi ben cadenzati, che di frenetico non ha nulla. Questa non è una critica, ma una precisazione per quanti potrebbero sentirsi traditi dalle indicazioni dell’editore.
La scrittura sobria e raffinata di Defilippi cala con studiata lentezza nella storia, prendendosi tutto il tempo necessario per creare l’atmosfera, farci conoscere i personaggi e vedere con i loro occhi le immagini forti che dipinge pagina dopo pagina.
È un’indagine storica rigorosa che intreccia i drammi e le miserie della guerra con quelli ben più oscuri dell’animo umano; parla del Male, Defilippi, di quello vero, il più pericoloso, che ogni uomo si porta dentro, e qualcuno più di altri.
È un giallo fatto di ombre, di odori – quelli rancidi e dolciastri della morte, ma anche dell’anima corrotta – di morbosità: è un’angoscia sussurrata, una cupezza che permea la storia pagina dopo pagina.
Per essere apprezzato, questo romanzo richiede empatia, non può essere letto con la leggerezza di chi cerca il solito giallo “all’americana”, con inseguimenti e sparatorie d’effetto, dove la morte resta su carta e sembra non fare male.
Quando i riferimenti storici rigorosi parlano di caschi del silenzio, corone di cuoio dotate di elettrodi, ossa spezzate dalle cinghie di contenzione, di abusi fisici raccapriccianti, non si può restare indifferenti, o tanto vale chiudere il libro e dedicarsi ad altro.
È un viaggio doloroso nel Male, senza finzioni, senza retorica, e alla fine si ha l’impressione di aver vissuto davvero la storia e conosciuto i personaggi, tanto sono vivide le sensazioni che lascia.
Il finale è un crescendo di angoscia e morte, una discesa all’Inferno. Con tanto di redenzione, forse, perché il Male non è tutto uguale.
È un romanzo che invita a riflettere su ciò che siamo davvero, sull’orrore di cui l’uomo è capace e lascia con una domanda.
Può esistere un Male giusto, che vendica e sana l’orrore con altro orrore?
Dopo questo viaggio, sarei tentata di rispondere sì.

(Ilaria Tuti)