Wood of Ypres: un viaggio tra dolore e disincanto

È possibile prevedere la propria morte? Se vi chiamate David Gold, forse, sì.
Nel 2009 la band Woods of Ypres pubblica l’album Woods 4: The Green Album contenente un brano in cui, il cantante David Gold, sembra viaggiare nel futuro e, quasi come se fosse già un fantasma, racconta di quando venne “Sepolto nel cimitero di Mount Pleasant, solo e senza cerimonie”. La canzone è malinconica e venata di misticismo, un po’ come tutto il resto della produzione di questa band canadese e la prima volta che l’ascoltai mi colpì in modo particolare. Non sapevo nulla dei Wood of Ypres e, dopo qualche ricerca, scoprii che si erano da poco sciolti a causa della prematura dipartita del cantante (morto a 31 anni in un incidente stradale). Dopo quella scoperta non potei fare a meno di attribuire un peso ancora maggiore a quel brano già carico di disincantata tristezza.
In realtà, ascoltando altri brani e leggendone i testi, è evidente quanto la tematica della morte sia ricorrente in quell’album (un brano è intitolato: Quando leggerai questo, io sarò già morto). Dopotutto stiamo parlando di una band con profonde radici doom metal, genere dove sofferenza, dolore e decadenza sono le colonne portanti. Va da sé che se tutti i giorni parlo di quanto sia prossimo il giorno della mia morte, per la legge dei grandi numeri, prima o poi mi scoprirò essere profeta.
L’album spalanca le sue porte scricchiolanti facendoci entrare in un antico castello fatto di immense foreste e antri bui. Shards of Love ci accoglie con schegge di un amore finito che feriscono non appena poggiamo le mani sugli stipiti delle porte. Inizia con un’intro arpeggiata e malinconica crescendo lentamente fino a raggiungere una velata aggressività quando l’inevitabilità della separazione spazza via ogni speranza.
Con Everything I Touch Turns To Gold (Then To Coal) sprofondiamo in un pantano di tristezza. Un riffone elettrico, lento e solenne in pieno stile doom, e la voce profonda di David Gold sovrapposta a un rabbioso growl, ci raccontano della viltà della depressione che, come una maledizione, costringe a trasformare in oro e poi carbone e poi ruggine e infine polvere ogni cosa che tocchiamo. A mio parere uno dei pezzi migliori del disco. Lo stesso mood si trascina anche in By The Time You Read This (I Will Already Be Dead) che ci fa compiere un ulteriore passo verso le tenebre, facendoci ascoltare un testamento cantato. Un’eterea e distaccata resa, un’ammissione di sconfitta che alterna strofe violente a un altro riuscitissimo ritornello lento, cupo e melodioso. Le note di piano di I Was Buried In Mount Pleasant Cemetery, infine, ci spingono in un baratro in cui si precipita inevitabilmente a occhi chiusi, contemplando un nero cielo stellato che si allontana sempre di più mentre vediamo la nostra intera vita scorrerci intorno come una visione sbiadita dal tempo.
Dopo questa esperienza catartica Into Exile: Can You Get Here In 10 Days? è una boccata d’aria fresca. La leggerezza del sapere di non avere più nulla da perdere, del voler fuggire da tutto, dell’andarsene in esilio senza guardarsi indietro, accompagnati da riff di chitarra più veloci e da un cantato più energico che persistono in Pining (For You), anche se con una nota più riflessiva, il tipo di pensieri di chi ha ormai sufficiente forza per guardarsi dentro. “Ciò che pensavo fosse unico in te/ sembra essere invece piuttosto comune/ visto che ovunque vado ogni cosa mi ricorda di te/ ciò che pensavo fosse straordinario è invece ordinario/ visto che ovunque vado mi struggo per te”. La riflessività lascia lo spazio a un’infinita autostrada che corre in mezzo alle gelide foreste canadesi, quando in Wet Leather ci ritroviamo in sella ad una moto sfrecciando nella notte, urlando al vento “La vita è solo piscio e dolore/ nulla che mi mancherà”.
Proseguendo nel viaggio ci imbattiamo in Halves And Quarters, che con le sue chitarre rock’n’roll e i suoi cantati black metal ci trascina in territori inesplorati, per un veloce intervallo che quasi si fonde con le opposte atmosfere oniriche di You Are Here With Me (In This Sequence Of Dreams). Una piccola baita di legno nel cuore di una notte invernale che, grazie alla pace del sonno, regala un’inaspettata serenità, una dolce melodia, quasi una ninna nanna, tanto breve quanto intensa.
Abbiamo superato la metà del disco, ma continuiamo ad addentrarci perché ci sono ancora un paio gemme che aspettano di essere svelate. Don’t Open The Wounds / Skywide Armspread rimane nelle atmosfere musicali incontrate finora, fatte di contrasti musicali, tra ritmi veloci e lenti, melodia e aggressività. Il testo ci dà una serie di consigli su come affrontare il dolore e la perdita per poi esplodere nel finale con la liberatoria sensazione di essere in cima a una montagna, a braccia aperte, sovrastati solo dal cielo infinito.
Siamo infine pronti a uscire dal castello infestato che è questo Green Album e a lasciarcelo alle spalle sulle note di Move On! che, con un sorriso sornione, ci racconta di come “Saranno sempre le donne a lasciare gli uomini” perché “le donne passano oltre mentre gli uomini amano per sempre”. Un velo di ironia per concludere questo viaggio in cui si contemplano le tenebre, la luce, il sogno e la sofferenza, dipingendole con una musica figlia di numerose contaminazioni, nata dalla mente di un artista che, sfortunatamente, non ha avuto il tempo di esplorare del tutto la sua vena creativa.

(Daniele Tredici)