Conseguenze, di Luca Romanello
«Tu non sai ciò che hai fatto», mi accusa il vecchio.
Stringo ancora la Beretta in mano. La sento confortevole, anche dopo lo scossone dello sparo. Il barbone è a terra, tra la credenza e l’albero di Natale, e si copre la ferita con le dita guantate. Cerca di frenare l’emorragia, o di far passare il dolore, ma l’ho preso in pieno petto. Non ne ha per molto.
«Babbo Natale non esiste, Carlo. Sono mamma e papà che ti comprano i regali», afferma con decisione mio padre.
Trattengo le lacrime. Vorrei urlargli contro che non è vero, che è un bugiardo, ma riesco solo a emettere un guaito. Manco fossi un cane.
«Caro…»
«Tu zitta!» la interrompe. E forse lo odio più per quello che non per quanto mi sta dicendo. «È grande abbastanza per smettere di credere nelle stupidaggini!»
«Ma ha solo sette anni!»
«Silenzio!»
Il rumore della sberla è secco, breve. L’unica differenza con gli schiaffi che ricevo io è che il suono non mi rimbomba nella testa. E non sento il gusto del sangue, in bocca.
Mamma abbassa il capo. Tira su col naso.
«E adesso, Carlo, ripeti con me: Babbo Natale non esiste.»
Ho paura di guardarlo negli occhi.
Mi prende per le spalle. «Carlo?»
«Babbo Natale…»
«Sì?»
«Babbo Natale esiste!» gli urlo in faccia. «Esiste, va bene? Sei tu che non devi esist…»
Secco. Breve. Sangue.
È il gusto che ho in bocca, ancora dopo tutti questi anni. Ho smesso di credere a Babbo Natale. Tutto sommato è forse l’unica cosa buona che mi ha lasciato quel bastardo di mio padre: non credere nelle favole, mai.
D’altra parte, cosa avrei dovuto pensare di questo svitato che si è intrufolato in casa nostra? Non ha nemmeno il vestito rosso, né vedo slitte parcheggiate qui fuori. Violazione di domicilio. Certo, ci rovinerà il Natale, ma in fondo il 25 dicembre è un giorno come gli altri.
«Tu non sai ciò che hai fatto», ripete.
Un singhiozzo, alle mie spalle. Sento la schiena irrigidirsi in un brivido freddo.
«Papà?»
Cerco di dominare il tono della voce. «Nichi, vai via!» farfuglio.
«Papà, ma quello…»
«Ho detto vai…» comincio, voltandomi. Mi blocco. La faccia di mio figlio è un cencio informe, solcato da lacrime spesse, davanti all’espressione sbigottita di mia moglie.
In quel momento va via la luce. Prima quella dell’appartamento, poi quella dei lampioni in strada.
Nel buio della stanza, la luna si riflette negli occhi di Nichi. E d’improvviso, mentre percepisco distintamente la vita abbandonare il corpo del vecchio, capisco cosa sta succedendo.
Qualcuno urla, dalla strada.
Corro a guardare verso il cielo, come per seguire qualcosa di invisibile. Le stelle si spengono. Una per una. Prima le più lontane, poi le più vicine, con una velocità che ha dell’irreale.
Le ultime sono gli occhi di Nichi, davanti all’altra finestra.
«Ho paura», dice a sua madre.
In quell’ultimo istante, sono solo.