Sense 8, dal genio targato Wachowski
Avete presente quando afferrate nella rete alcuni commenti su un film, o una serie, che vi incuriosiscono? Perché se ne parla bene, o perché qualcuno non riesce a decidere se sia bello oppure no. Quelle osservazioni per cui dici: Ok, ora mi guardo il pilot, poi vediamo”.
Bene, dopo aver guardato la prima puntata, non sono più riuscito a smettere. Tempo una settimana, e ho divorato Sense 8.
Perché? Per diversi motivi in verità.
Cominciamo con l’idea: otto persone in differenti posti nel mondo scoprono di essere connessi l’uno agli altri, senza saperne il motivo.
La musica: in ogni puntata c’è una colonna sonora che trascina, si amalgama alle immagini, alle sensazioni. Ecco, Sense8 è pregno di sensazioni, che riesce a trasmettere, sia attraverso il suono, sia attraverso le immagini. I primi piani, gli sguardi, i dettagli. Fotogrammi che restano impressi nella mente.
L’atmosfera: otto luoghi differenti ci portano in altrettante ambientazioni, ognuna capace di adattarsi allo stato d’animo del momento, agli eventi che scorrono sullo schermo, ai personaggi stessi e a ciò che riescono a trasmettere. Si parte da una Germania quanto mai cupa per arrivare ai mille colori dell’India, dall’afa gialla e nera dell’Africa al freddo pallido di una Corea stantia, dalle notti londinesi a una gelida e tersa Islanda, dal caliente Messico alla caotica delinquenza americana.
Temi sociali forti: la corruzione, la falsità del mondo dello spettacolo, le difficoltà nell’adattarsi alla società di una coppia gay, di una transgender, i segreti e i tradimenti all’interno di una famiglia criminale, le tensioni razziali tra polizia e bande di una New York forse stereotipata, ma sempre reale, promesse che segnano un’esistenza, sacrifici per coloro che si amano, fughe dal passato per dimenticare o semplicemente per senso di sopravvivenza, tradizioni della propria terra cui è molto difficile sottrarsi, contrasti tra fede e scienza, la povertà e i soprusi a contrasto con le gioie di una vita semplice nel terzo mondo, e le scelte sempre molto difficili, da cui dipende non solo la propria vita, ma quella di tutti e otto.
La regia e il cast: sono bravi, tutti. Si empatizza immediatamente con alcuni personaggi, mentre con altri il procedimento è più lento, anche se quando accade, il legame che si è stretto è forse più forte. Inoltre, il modo in cui sono montate alcune scene, riuscire a sovrapporre le azioni dei personaggi lontani a quelli di chi si sta seguendo, il modo in cui non solo essi sono in grado di interagire a distanza trovandosi contemporaneamente – per esempio – a New York e Londra, ma anche come uno stesso personaggio sia in quel momento se stesso e l’altro. Come riescano a tirarsi fuori dai guai diventando l’altro. Tutto questo, ecco, ha un sapore che definirei magico.
Parliamo del cast. Trovo formidabile Jamie Clayton nella parte di Nomi Marks, attrice transgender nei panni – appunto – di una transgender, una hacker che ha un blog di denuncia sociale, impegnata a far rispettare la propria sessualità in un mondo dove la sua stessa famiglia le ha voltato le spalle. Per fortuna potrà contare su Amanita (Freema Agyeman), la sola capace di amarla per ciò che è.
Intensa anche la figura allo stesso tempo dolce e dannata di Riley Blue, interpretata da Tuppence Middleton, una DJ che vive a Londra ma alle cui origini, islandesi, sarà costretta a tornare per affrontare un tragico passato. Riunirsi a suo padre le permetterà di allontanarsi da un presente fatto di cattive amicizie ma riporterà inevitabilmente a galla un antico dolore che sperava di aver sepolto.
Vorrei poi parlare di Miguel Angèl Silvestre (la cui somiglianza con il nostro Roul Bova è davvero sconcertante), nei panni di Lito Rodruigez, attore sex-symbol costretto ai salti mortali per mantenere il segreto circa la propria omosessualità, certamente il personaggio con le scene più divertenti: la relazione particolare con Hernando (Alfonso Herrera) e Daniela (Eréndira Ibarra) è un bel po’ sopra le righe, ma non per questo meno appassionante.
Altra figura che merita è quella di Wolfgang (Max Riemelt), di professione ladro (diciamo così), ma di quelli bravi, capace di scassinare una cassaforte impenetrabile, se non fosse che appartiene al boss suo zio, dal quale dovrà poi guardarsi le spalle; Wolfgang è tormentato dal passato e da una figura paterna cui deve soltanto sofferenza. Unica persona su cui può contare è Felix (Max Mauff), per lui più importante di un fratello o di un qualsiasi membro della sua famiglia.
Sun, interpretata da Doona Bae, lavora nell’azienda del padre, una di quelle società dai grandi numeri, ma nella quale lei ha un ruolo marginale, perché è una donna – anche se una donna che mena, vista la sua praticità con le arti marziali – e perché la sua figura è oscurata dall’ombra del fratello, un idiota per il quale, però, suo padre stravede. Scoprire gli ammanchi in bilancio di ingenti somme la spingerà a denunciare a suo padre l’accaduto, scatenando una reazione a catena che non sarà in grado di fermare, se non con un sacrificio personale.
Aml Ameen veste il ruolo di Capheus, un giovane kenyota che guida un autobus dipinto con la faccia – e il nome – di Van Damme, il suo mito (anche se utilizza la storpiatura Van Damn); per aiutare sua madre, malata di AIDS, a procurarsi le medicine necessarie a curarsi, si caccerà nei guai, incrociando la strada con alcuni personaggi pericolosi della malavita locale. Capheus è un inguaribile ottimista, un sognatore, forse l’anima più pura degli otto.
Bellissima Tina Denai, che dà vita a Kala, un altro personaggio che definirei “puro”, comunque dall’esistenza piuttosto normale; vive in India, a Mumbai, terra dalle tradizioni forti, è farmacista e sta per sposare un uomo magnifico. Peccato che lei non lo ami e si ritrovi invischiata in un’assurda attrazione verso un altro sensate: Wolfgang. Tutto questo le farà mettere in dubbio le sue scelte e la strada che sta per prendere.
Infine – ma in realtà è tra i primi a comparire – c’è Will Gorski (Brian J. Smith), agente di polizia indomito che – una volta compreso ciò che sta accadendo nella sua nuova vita – si mette in moto per interagire fisicamente con Riley – della quale si innamora, ricambiato – e salvarla dagli uomini di Mr. Whispers (Terrence Mann), il nemico degli otto sensate. Will è inoltre il primo a essere avvicinato dal misterioso Jonas Maliki (Naveen Andrews), che lo mette in guardia su ciò che è (un sensate, appunto) e su coloro che vogliono far loro del male.
La visione della morte di Angelica (Daryl Hannah) e dello stesso Jonas, con lei al momento cruciale, è di fatto la scena d’apertura del pilot, ciò che dà il via alla vicenda, ciò che – in qualche modo – fa nascere gli otto sensate. In un’intervista lo stesso Naveen Andrews afferma che, in qualche modo, i personaggi di Jonas e Angelica sono i “genitori” degli otto sensate.
Andy e Lana (ex-Larry) Wachowski, gli ideatori di Matrix, hanno messo in piedi un impianto davvero notevole, un mix esplosivo di fantascienza, thriller, temi sociali importanti e poesia. Poesia, sì, perché a tratti Sense8 è poetico, sprigiona quell’aura di profondità e misticismo capace di incantare.
Con l’arrivo di Netflix in Italia il prossimo autunno, ci aspettiamo – e ci auguriamo – di veder approdare Sense8 sui nostri schermi. Al momento sono state annunciate in via non ufficiale cinque stagioni, sempre che Netflix rinnovi il contratto per la serie.
Il Terzo Occhio assegna 4 coltelli.
(Daniele Picciuti)