Ghostbusters: Legacy, un grande omaggio a Harold Ramis
Guardare Ghostbusters: Legacy (o Ghostbusters: Afterlife, come da titolo originale) è stato come un ritorno agli anni 80 e a un modo di fare cinema – con quell’ironia sottile e malinconica – che ormai non si usa più, o quasi. Ghostbusters: Legacy riesce a essere allo stesso tempo un sequel e un reboot dell’originale del 1984, collegandovisi in maniera quasi “corporale”, come un serpente intorno a un ramo o una protesi alla struttura primaria. Ghostbusters: Legacy esiste in funzione dell’originale, come sua naturale estensione.
La storia parte con la prematura scomparsa di Egon Spengler, a seguito di uno scontro con una misteriosa entità soprannaturale. Cambio di scena, siamo altrove, e facciamo la conoscenza della famiglia di Egon, capeggiata dalla figlia Callie (Carrie Coon, vista in Gone Girl, The Sinner e The Leftovers), dal figlio maggiore Trevor (Finn Wolfhard, visto in Stranger Things) e dalla figlia Phoebe (una sempre brava Mckenna Grace, vista in Designated Survivor, The Hunting of Hill House e nel recente Malignant) che di lui sanno così poco, nonostante egli sia stato una leggenda ai suoi tempi. Sfrattati dalla loro casa, si trovano costretti a prendere possesso della proprietà dello scienziato defunto e questo sarà l’inizio di una grande (dis)avventura. Il punto di vista più a fuoco, nel film, è certamente quello di Phoebe, con la sua vocazione scientifica e alcuni tratti da sindrome di Asperger che la rendono particolarmente distaccata e fredda rispetto alla realtà, cosa che le permetterà di mantenere salde le redini della sua mente razionale anche quando le cose precipiteranno fino ad andare fuori controllo.
Il film gira bene, il regista Jason Reitman (figlio di Ivan Reitman, regista dei primi due Ghostbusters) si prende il suo tempo, lascia che lo spettatore scopra a poco a poco assieme a Phoebe, Trevor e Callie la verità su chi fosse davvero Egon Spengler e sul segreto che custodiva. Man mano che tali segreti emergono, si materializza nei giovani protagonisti quella voglia di realizzare i sogni che finisce per riflettersi inesorabilmente nello spettatore e, per quelli di noi che hanno visto il primo Ghostbusters da ragazzini, è come il manifestarsi di un’emozione dimenticata da tempo. Siamo lì anche noi, con lo zaino protonico in spalla, pronti a catturare fantasmi, stando sempre ben attenti a non incrociare i flussi. Phoebe scopre il laboratorio nascosto di suo nonno, accessibile tramite quella stessa pertica che tutti noi ricordiamo bene, e Trevor rinviene la vecchia Cadillac adibita a veicolo di soccorso. Il successivo incontro dei ragazzi con l’eccentrico professor Grooberson (Paul Rudd, o dovrei dire Ant-man?) esperto di geologia, farà luce sulle strane scosse di assestamento che affliggono da tempo la zona intorno alla proprietà Spengler.
Mentre osserviamo Phoebe riguardare i vecchi spot pubblicitari degli acchiappafantasmi, riprecipitiamo di quasi quarant’anni indietro, e la sensazione che si ha – o almeno che io ho avuto – è che siano eventi “storici”, come se si riguardasse il discorso di Kennedy alla nazione americana o una qualunque altra immagine reale che fa parte ormai della storia del nostro mondo. Ecco che allora appare così chiaro ai miei occhi cosa è stato fatto da insinuarmi un bel brivido nelle ossa: sono riusciti a rendere “storia” quello che fino a oggi era solo un film, un grande film, certo, un cult per tutti i cinefili, ma pur sempre un film. Ma adesso, adesso il Ghostbusters del 1984 appartiene davvero a una sorta di realtà alternativa in cui tutti noi di quell’epoca abbiamo vissuto e, grazie a Ghostbusters: Legacy, possiamo finalmente ritornarvi. Per questo mi sento di essere critico con chi non ha apprezzato il film per i più svariati motivi. Siamo di fronte – è vero – a un’operazione commerciale, che probabilmente darà inizio a una nuova saga, e di sicuro la pellicola non è esente da alcune leggerezze, ma a mio avviso tutto ciò scompare di fronte a ciò che essa rappresenta: è la possibilità per i ragazzi di questa generazione di tuffarsi nello stesso mondo in cui abbiamo vissuto anche noi negli anni 80, con tutti i mutamenti che comporta il cambio d’epoca e di stile di vita – come è giusto che sia – e allora perché negarglielo? Soprattutto se a scrivere le sceneggiature tornerà qualcuno come Dan Aykroyd, già coautore della storia originale.
Segue spoiler.
Vorrei concludere, infine, con un pensiero alla grande emozione che mi ha suscitato il finale – di cui non parlerò per non eccedere con lo spoiler – e che costituisce un grande omaggio ad Harold Ramis, attore e coatuore con Aykroyd degli screenplay del 1984 e del 1989 (Ghostbusters II). Così come anche rivedere, nel cameo finale, oltre a Dan Aykroyd nei panni di Ray Stantz (stavolta sa cosa rispondere a quella domanda), anche Bill Murray nelle vesti di Peter Venkman (sempre pronto a tirar giù i fantasmi a suon di battute) e Ernie Hudson in quelle di Winstone Zeddemore (con la consueta saggezza da uomo comune che ne fa il suo carattere distintivo) di nuovo con le tute grigie e gli zaini protonici in spalla.
Nel cast troviamo anche Celeste O’Connor (Freaky), il giovanissimo Logan Kim, e poi Sigoruney Weaver nei panni di Dana Barrett (ma dovete aspettare la scena post titoli per vederla) e Annie Potts in quelli di Janine Melnitz.
Quattro coltelli
(Daniele Picciuti)