Blonde, di Andrew Dominik: in fondo all’abisso della solitudine
Reduce dalla visione di Blonde, del regista Andrew Dominik, sento il bisogno di esternare le sensazioni che questo film mi ha dato. Sui social, in questi giorni, sono fiorite numerose critiche circa il buon gusto e la fedeltà del film a quella che è stata la vita di Marilyn Monroe.
Partiamo da un presupposto: il film non è biografico, ma è la trasposizione di un romanzo scritto dall’autrice Joyce Carol Oates, romanzo che porta lo stesso nome del film, Blonde, e con il quale la scrittrice è stata finalista al prestigioso Premio Pultizer. Anzi, per precisione, la Oates è stata finalista anche con altre sue opere al Pulitzer e ha collezionato una serie di premi e riconoscimenti importanti nel corso della sua carriera. Fra i temi che stanno più a cuore alla Oates ritroviamo molti di quelli che emergono durante la visione di Blonde, come la condizione delle donne nella società capitalista americana, dominata dal denaro e dal potere; il pericolo rappresentato dalle luci delle grandi città, capaci di sopraffare e spezzare con la violenza dei suoi abitanti le anime più ingenue; la falsità delle apparenze, che spesso celano segreti e violenze che restano impunite all’interno delle mura familiari. Per inciso, neppure il romanzo della Oates ha la pretesa di essere una biografia fedele di Marilyn Monroe. E, come ci sono grosse differenza tra quella che è stata la vita della diva più conosciuta e amata d’America e il libro, molte ce ne sono anche tra il libro e il film. So che questo tipo di discrepanze fa spesso storcere il naso allo spettatore, ne abbiamo riprova ogni giorno leggendo i vari commenti via social su quanto un film o una serie non siano adeguati alle aspettative che si hanno rispetto a cosa dovrebbe o non dovrebbe rappresentare, a cosa dovrebbe o non dovrebbe raccontare. Ma la verità è che un’opera che voglia davvero affrancarsi dal rischio di essere una mera copia per immagini di un testo scritto, avrà sempre bisogno di essere celebrata con idee e invenzioni originali, quando non strumentalizzata dalla produzione con espedienti commerciali che la rendano fruibile alla stragrande maggioranza del pubblico.
Ecco, si può dire di tutto di Blonde, ma non che abbia risentito di questo. Sebbene il tema, che è quello della vita di Marilyn Monroe, sia per forza di cose “commerciale”, perché davvero chiunque – o quasi – ne sarà incuriosito, la sua esecuzione non lo è, anzi sembra proprio dire all’occhio che guarda: questo non è un film, non è un documentario, è oltre.
Blonde vanta una delle fotografie migliori che abbia mai visto e gode di musiche che la accompagnano in maniera esemplare. E Ana De Armas è sublime, incanta con la sua naturalezza e in ogni fotogramma, in ogni sguardo che lotta tra il pianto e il sorriso, in ogni respiro sembra entrarti dentro e rigirarti le viscere. E il pensiero che una persona così meravigliosa – almeno sulla base di come viene ritratta – abbia affrontato un mare così grande di ingiustizie e privazioni, ti fa montare dentro una rabbia assurda. La sua ricerca costante della figura paterna emerge con prepotenza e anche se non ha davvero avuto una storia con quel o quell’altro personaggio o se non ha detto e fatto determinate cose, il risultato è comunque molto vicino alla verità. Perché nella sua vita, Norma Jean Baker – vero nome di Marilyn Monroe – ha cercato suo padre sia negli uomini con cui stava – “stranamente” tutti più grandi di lei di parecchi anni – e l’ha cercato anche nella sua vita, pur non arrivando mai a conoscerlo; alcune fonti dicono che l’abbia trovato ma che lui l’abbia rifiutata, negando che Norma fosse sua figlia. Un test del DNA effettuato nel 2022 ha dimostrato invece la sua paternità. Nel film, suo padre le scrive costantemente delle lettere nel corso degli anni pur senza mai incontrarla, ma dandole quella lieve speranza che aiuta Norma ad andare avanti. Ci sarebbe altro da dire, su questo, ma riprenderò il discorso più in là.
Da un punto di vista psicologico, Blonde spacca di brutto, e non solo perché mette a nudo la fragilità di quella che è da sempre considerata un’icona di femminilità. Spacca perché quella stessa icona è stata costruita dagli uomini, in un mondo – quello di Hollywood – che tracima misoginia e strapotere maschile fin dai suoi albori. Il caso Harvey Weinstein dovrebbe dirvi qualcosa, il movimento #MeToo iniziato nel 2017 ha scardinato un bunker di omertà e abusi che hanno coinvolto moltissime star di Hollywood. Weinstein era in cima alla piramide, ma di certo esistono ancora moltissimi individui come lui che ogni giorno si arrogano il diritto di decidere se un’attrice può avere una parte oppure no in base a quanto sia “disponibile”. Il fenomeno sta regredendo, grazie al coraggio di chi decide di uscire dall’ombra e denunciare le violenze subite. Ma in quegli anni, in cui Hollywood esplodeva e il potere maschile dominava nel cinema, una ragazza semplice e già traumatizzata da un’infanzia difficile come Norma Jean non poteva che esserne travolta.
Quella che segue è una riflessione che contiene un grosso spoiler (sappiamo tutti come finisce la storia di Marilyn Monroe, perciò lo spoiler riguarda il modo in cui è stato immaginato il finale del film). Se non l’avete ancora visto, e siete suscettibili, non leggetelo.
Ammetto che una parte di me continua a chiedersi perché sia stato usato l’espediente della relazione a tre con Cass Chaplin e Eddy Robinson – che lei aveva sì frequentato ma separatamente – due figli d’arte disadattati (interpretati da Xavier Samuel e Evan Williams), quasi identici nel look e nei modi. In fondo lei ha avuto così tante storie – alcune nemmeno accennate, come quella col suo primo marito, sposato prima che Marilyn “nascesse” – che non doveva essere difficile parlare delle stesse cose ma utilizzando gli altri personaggi più concreti. Certo, ai fini del film, la figura di Cass è rilevante perché collegata alla causa del suicidio di Norma: in breve, Cass muore e lascia un pacco indirizzato a lei, con all’interno il pupazzo di peluche di quando Norma era bambina e un biglietto. Nel biglietto, Cass le rivela che erano scritte da lui le lettere che lei riceveva a firma di suo padre. In qualche modo, Cass le voleva ancora bene, era il suo modo per starle vicino e farla stare meglio… ma quella rivelazione, unita alla morte stessa dell’amico, la getta in una disperazione totale che la spinge a imbottirsi di alcol e pillole. E quello sarà il modo in cui se ne andrà per sempre.
Nel libro della Oates non è così, l’autrice ipotizza un complotto da parte dell’FBI, perché i poteri forti temevano che lei potesse svelare al mondo i peccati del presidente J.F. Kennedy, che frequentava. Nella realtà, l’ipotesi complottista è ancora in piedi, addirittura Marilyn era sospettata di essere filo-russa per alcune sue amicizie con persone sospettate di essere comuniste. Un’altra ipotesi è che lei abbia avuto un crollo a seguito di una lite furiosa con Robert Kennedy, con cui aveva intrapreso una relazione dopo la fine di quella con il presidente, e abbia assunto alcol e pillole per questo. Forse la verità non verrà mai a galla e forse è per questo che, in fondo, il film non vuole essere biografico, perché semplicemente non può farlo.
Norma Jean e Marilyn erano davvero persone diverse, ma in qualche modo una non poteva esistere senza l’altra. Il caos in cui affondava la mente della diva traspare anche nel girato, in quel continuo mutare di effetti, dal bianco e nero al colore, dal 4:3 al 16:9, e lo fa scientemente, come dichiarato dal direttore della fotografia Chayse Irvin (a cui darei un Oscar seduta stante), perché intende rappresentare in modo ancora più forte il caos in cui annaspa Norma. Trovo affascinante anche il modo in cui i fotogrammi si intersecano, a volte in maniera disordinata, quasi casuale, si notano in particolare le scene che riprendono alcune delle sue fotografie più note, confezionate – assieme agli altri frammenti ricreati ad arte – in una maniera che trovo geniale.
Dunque Blonde non è una biografia e non è solo un film, rappresenta un manifesto contro la misoginia, contro lo strapotere degli uomini sulle donne, contro gli abusi e le violenze, e si fa portavoce del diritto di ogni donna di poter scegliere cosa sia meglio per sé. Si è parlato del troppo nudo, ma credo sia stato voluto per sottolineare, ancora una volta, la fragilià di Norma che, spesso, si è ritrovata nuda di fronte allo specchio, di fronte agli uomini, di fronte alla vita. Ho letto da qualche parte che il film è anti-abortista, ma non sono d’accordo. Nella fattispecie, lei voleva un figlio, ma tanto la sfortuna quanto gli uomini gliel’hanno sempre negato. La scena del bimbo che le parla ha fatto accapponare la pelle a molti, ma non dovrei essere io a spiegarvelo: Norma non stava bene, non c’era nessun bambino che le parlava, era la sua mente che giocava con lei come faceva sempre. Traumi, violenze, alcol e droghe la spingevano sempre più giù in fondo a quell’abisso di solitudine in cui, a ben vedere, era sempre stata. Ed è qui che comprendo perché sia stata inventata la relazione a tre con Cass e Eddy: perché se nessuno, ma proprio nessuno, l’ha mai considerata davvero per ciò che era – Joe DiMaggio (interpretato da Bobby Cannavale) voleva “possederla”, per Henry Miller (un grande Adrien Brody) lei era “la sua Magda”, perciò una versione disponibile di colei che non poteva avere – allora bisognava creare qualcuno che tenesse davvero a lei, e penso sia questa, veramente, la nota più triste del film e che dovrebbe farci scendere dal piedistallo di chi giudica sempre tutto e tutti e spingerci, invece, a riflettere sul perché questo si sia reso necessario. Basti pensare che, nella realtà, Cass Chaplin è morto sei anni dopo Marilyn Monroe, cosa che tronca di netto la verosimiglianza del finale, ma è proprio questo il punto: Norma Jean si arrende solo quando capisce che l’unica persona che l’abbia mai protetta – a suo modo – se n’era andata.
Cinque coltelli.
(Daniele Picciuti)