Assassinio di marzo, di Dan Turèll
“Sembrava tutta una farsa, come probabilmente ogni vita umana deve sembrare a chi la guarda da una altezza sufficiente”.
Copenaghen, anni ’70. Una lettera anonima spedita a un giornale, segnala la morte di un famoso e ricco mercante di quadri. Il direttore assegna il caso a un giornalista free-lance, svogliatamente e senza rischiare uno dei suoi cronisti fissi, consapevole che probabilmente l’imbeccata è fasulla, opera di un mitomane. Invece, il mercante risulta effettivamente assassinato, per l’esattezza pugnalato alle spalle in casa sua, con un coltello da cucina. Il reporter, protagonista della vicenda e mai chiamato per nome, inizia a scavare nella vita della vittima, scoprendolo ricchissimo, sull’orlo della pensione, in guerra con l’algida sorella, e soprattutto omosessuale, frequentatore di locali molto equivoci e molto promiscui. Ed è in quel mondo che cerca di trovare il bandolo della matassa, scoprendo l’esistenza di un giovane pittore protetto e mantenuto dalla vittima che si dissolve senza dare più traccia di sé. Ben presto i cadaveri aumentano, perseguitando, quasi inseguendo la scia battuta dall’articolista, in un ambiente borderline tra eleganti gallerie d’arte e fumosi locali a luci rosse. Con porte perennemente chiuse.
Dan Turèll è stato un popolare autore di romanzi gialli nella Danimarca di fine novecento, molto prolifico, fino alla prematura morte, avvenuta nel 1992. Con un marchio di fabbrica ben definito, fatto di insofferenza alle regole, arguzia, ironia. Si intuisce che la figura del giornalista senza nome, protagonista della vicenda, sia modellata sulla personalità dello scrittore, che lo dipinge in modo piuttosto autocelebrativo e autocompiacente, come una persona coerente, di successo, un po’ vessato dalla società tiranna. E questo non è del tutto positivo, troppo evidente la figura del “buono” classico. La vicenda è descritta in modo chiaro e lucido, con uno stile efficacemente asciutto. Tutto però ha un odore di stantio, di ingiallito, di passato senza essere vintage. Da quell’epoca di locali fumosi, quartieri ghetto, grigia malinconia, a Copenaghen sono passati 40 anni. E i danesi li hanno usati tutti e bene, ormai certe atmosfere cupe e disorganizzate sono lontanissime da quel che è oggi la città sull’Oresund. C’è un modus vivendi completamente diverso. E questo si sente troppo, rendendo l’opera anacronistica. Lo stesso intreccio, che all’epoca poteva essere originale e fresco, ora ha un che di già visto e stravisto. Tra l’altro, con un prezzo di copertina che per una edizione relativamente economica è astronomico.
Purtroppo questo è un libro che 40 anni fa sarebbe anche stato interessante, dopo Rischiatutto il giovedì o il film del lunedì. Nel 2016, non rende. Ed è un peccato.
Due coltelli.
(Giovanni Cattaneo)