Abbiamo sempre vissuto nel castello, di Shirley Jackson

Titolo: Abbiamo sempre vissuto nel castello
Autore: Shirley Jackson
Editore: Adelphi
Anno: 1962
Pagine: 182
Prezzo: 8,99 euro (ebook) 18,00 euro (cartaceo)

Sinossi

«A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce»: con questa dedica si apre L’incendiaria di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l’Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i «brividi silenziosi e cumulativi» che – per usare le parole di un’ammiratrice, Dorothy Parker – abbiamo provato leggendo La lotteria. Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male, un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai ‘cattivi’, ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.

La recensione di Nero Cafè

Conoscevo la Jackson di fama, ma non avevo mai preso in mano una sua opera. Poi, consigliata da una cara amica, ho fatto il passo fatidico, godendomi la lettura di un romanzo non troppo lungo in cui il male e lo stile la fanno da padroni.

Il romanzo coinvolge il lettore, che gusta, pagina dopo pagina, il susseguirsi degli eventi. La narrazione è piuttosto scorrevole e molto particolare è lo stile dell’autrice: raffinato, dalla sintassi ricca ma non per questo pedante. Nonostante la trama sia molto semplice, quasi semplicistica, la Jackson riesce a mantenere vivo l’interesse del pubblico sino alla fine, complici ambientazioni ben descritte seppur oniriche e una caratterizzazione superlativa dei personaggi, la cui psicologia è delineata a trecentosessanta gradi.
È un lavoro difficile da catalogare, un romanzo breve che riesce a risultare completo sotto ogni aspetto (tecnico, narrativo, concettuale). Inoltre, alcuni particolari (che adesso vedremo) lo rendono un piccolo capolavoro gotico a metà strada tra il thriller e l’horror psicologico. Già da subito, infatti, il lettore viene proiettato in un clima malsano, inquietante, ed è difficile non provare angoscia durante le introspezioni di Merricat. È altrettanto difficile, però, non immedesimarsi in lei, nelle sue paturnie, nei suoi sentimenti di amore e odio, nel suo rifiuto della realtà. Molto particolare, inoltre, è la trama: il cosiddetto colpevole si intuisce già dai primi capitoli, eppure il lettore non resta deluso perché sa che quella è l’unica spiegazione logica, l’unica che può avere forza e significato.
Non aspettatevi, però, escalation o scene cruente, degne degli horror moderni. La Jackson non scade mai nel truculento né nelle spiegazioni a chiare linee: il tuo terrore è sussurrato, un alito di disagio che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina, nella quale l’autrice decide di lasciare al suo pubblico l’onere di darsi una spiegazione razionale o, magari, di porsi la domanda fatidica: ma nella follia, nell’odio, nei sentimenti esiste una ragione o tutto è basato sul caso e sull’istinto? Io mi sono risposta di no, che non può esistere un motivo razionale; magari giustificato, ma non razionale.
Un “classico” che non può mancare nella libreria (virtuale o fisica) degli amanti del genere, dove l’orrore e il terrore provengono da quella che molti chiamano normalità.

Lettura assolutamente consigliata.

Estratto

«Merricat,» mi chiamarono «Merricat, Merricat». Poi si allinearono (i bambini – NdR) tutti insieme lungo la recinzione.
[…]
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni. Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni. Merricat, disse Connie, non è ora di dormire? In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!
Feci finta di non capire; sulla luna parlavamo una lingua dolce e liquida e cantavamo alla luce delle stelle, contemplando da lassù il mondo arido e senza vita; ero quasi arrivata a metà della recinzione.
«Merricat, Merricat!».
«E la vecchia Connie dov’è? A casa a preparare la cena?».
Che strano rinchiudermi tutta in me stessa e camminare calma e impettita lungo la recinzione, posando i piedi con forza ma senza dare l’impressione di avere fretta, rinchiudermi e sapere che loro mi guardavano; mi ero ritirata in un luogo profondo e segreto ma li sentivo e li vedevo lo stesso con la coda dell’occhio. Avrei voluto vederli tutti a terra, morti stecchiti.

Valutazione: quattro coltelli.

(Tatiana Sabina Meloni)

terzo occhio 4 coltelli