Distillazioni da un obitorio: sognando un piccolo aster (Gottfried Benn)

Quando tutto giace senza più foglie
pensieri, umori, duetti
sfrondati come canne – è lì scuoiato,
niente stagnola intorno – e lo scuoiato –
tutte le pelli chissà dove –
con la congiuntiva iniettata fissa il silenzio:
ma che cos’è? (1)

Siamo fuori dall’obitorio, stiamo osservando la natura. Una natura morta. Siamo fuori dall’obitorio ormai da anni, quasi quaranta. Ma quello è un luogo che, se praticato quotidianamente, non ti lascia andare. Non ti lascia. I suoi odori, i suoi silenzi, ti rincorrono: muta di cani a grattare i talloni.
Medico, patologo. Medico, poeta.
Forse c’è una domanda in una Morgue, ed è illecita: la morte è lo scandalo della vita?

«Tutto negli ultimi anni è stato nel mio ambulatorio, su quella sedia alla finestra su strada. Nella stanza in fondo correggo e rifinisco, ma l’ispirazione mi viene sempre in quel locale con un’unica angusta finestra, e di mattina».

A partire da queste stanze che hanno l’odore pungente dell’ospedale, attraversiamo le stazioni di una via crucis: sofferenza, dolore, morte.
Ma cominciamo dal cadavere:

Un trasportatore di birra annegato fu deposto sul banco.
Qualcuno gli aveva ficcato un aster color lilla-
chiaro-scuro tra i denti.
Allorché gli asportai
sotto pelle
con un grosso coltello
lingua e palato dal torace,
devo averlo urtato, perché andò
a finire nel vicino cervello. (2)

Un cadavere rigido, annegato.
Sottile ironia della sorte, oppure la sapiente conoscenza della lingua, che incide le parole come il bisturi incide la carne: il cadavere di colui che trasporta liquidi è morto affogato.
Incide, coi suoi strumenti affilati, un corpo, il patologo. Incide, con la penna, la poesia in un obitorio, il poeta.
E nella Morgue c’è finito persino un aster, conficcato tra i denti di un corpo irrigidito dal rigor mortis.

Glielo sistemai nell’addome
fra i trucioli di legno,
il tutto ricucendo.
Bevi a sazietà nel tuo vaso!
Riposa in pace,
piccolo aster! (3)

Nessuna differenza qualitativa, nella poesia del medico-poeta: l’aster, i trucioli, il cadavere steso sul tavolo della dissezione. Ci mette nella posizione di guardare dalla sua stessa altezza, la stessa dalla quale muove il bisturi, dalla quale vede il fiore che qui è lontano dall’essere il simbolo della delicatezza e del sentimentalismo.
Eppoi quei trucioli.
Lui, poeta la cui ispirazione nasce tra le pareti della Morgue, sa che i trucioli servono a riempire i cadaveri svuotati. Ora, però, lo sappiamo anche noi. Ce lo ha fatto sapere cucendo, insieme alle carni del cadavere, i versi della poesia.
Non solo, facciamoci un’altra domanda: siamo sicuri che non ci sia differenza qualitativa?
È l’aster, in chiusura di poesia, ad occupare scena e sentimenti, il cadavere del trasportatore affogato solo un vaso, un oggetto, disumanizzato, cadaverico, brutalizzato nell’oggettività che ne fa “cosa morta”.

La sacralità del corpo umano, il “tempio di Dio”, viene ridotto a raccapricciante teatrino di gesti sanguinari e torbidi, l’entità psico-fisica deflagra in vista di una cieca riduzione strumentale che è legge della ciclicità della natura. (4)

Camille Félix Bellanger, Une fin à l’école pratique, 1902

Procediamo, ci spinge l’occhio del patologo che guarda nei corpi dei morti, procediamo, facciamo altrettanto con le sue poesie, dissezioniamole, cerchiamo ancora.

La bocca d’una ragazza, a lungo distesa tra le canne,
pareva tutta rosicchiata.
Squarciatole il petto, l’esofago era tutto forato.
Alla fine, in un pergolato sotto il diaframma
una tana di sorcetti fu scovata. (5)

Là un cadavere era un vaso per l’aster, qui il cadavere è luogo ideale per un nido di topi. Rivoluzione copernicana, l’essere umano non è soggetto, per sua stessa divina natura, di poesia. No. Una volta morto, un corpo, una volta aperto, allora, all’occhio della poesia dell’obitorio, tutto appare semplicemente per come è: natura, senza oggetti sollevati dal loro stato di cose per essere eletti a soggetti supremi di elegia.

Una minuscola sorellina giaceva morta.
Gli altri si nutrivano di fegato e reni,
ingoiando il gelido sangue e qui dentro
avevano trascorso una bella gioventù. (6)

Ecco la sorpresa.
La bella gioventù è quella dei giovani topi, cresciuti e pasciuti nell’ottimo contenitore che è stato il corpo della fanciulla.

Il sottile, amaro e ambiguo darsi della poesia: vivisezione di emozioni, dissezione della realtà dell’essere umano. Sentimenti incisi e studiati, riportati nudi su carta, come nudo sul tavolo dall’obitorio è il corpo morto del trasportatore di birra, e della giovane donna.
Non stupisce allora che Gottfried Benn, scandaloso poeta del cadavere e della Morgue, abbia scavato nella contraddizione che innerva i suoi versi, e che ci sta di fronte come insidiosa domanda: quale rapporto intercorre tra l’incisione sul cadavere e la sublimazione nella poesia? Si trovano forse così sovrapposte, come in un incubo notturno in cui non si distinguono i colori, le ombre del bisturi medico e della penna poetica?

Non è un invito a riflettere, azione che presuppone la volontà di fare chiarezza nell’immagine, schiarendo lo specchio al quale ci rivolgiamo.
No, è piuttosto un invito ad amare l’opacità, le macchie sul vetro e i limiti della parola.

A concludersi, può anche darsi, così:

placido è il lago,
bordato di nontiscordardime,
e ridono le vipere. (7)

(1) G. Benn, Natura morta, in Frammenti e distillazioni, Einaudi, Torino, 2004
(2) Id., Piccolo Aster, in Morgue, Einaudi, Torino, 2004
(3) Ibidem
(4) N. Centorbi, Gli esordi poetici di Gottfried Benn
(5) Benn, La bella gioventù, in Morgue, cit.
(6) Ibidem
(7) Id., Natura morta, in Frammenti e distillazioni, cit.

Di seguito due filmati:

Lettura di Kleine Aster
Kreislauf – a poem sequence

(Maria Carla Trapani)