La ragazza di Greenville, di Pietro Gandolfi
Non sono i fantasmi a doverci fare paura. Non sono gli zombie e non sono nemmeno i vampiri né le mummie. Magari. Sarebbe troppo facile, sapremmo benissimo da chi guardarci. Purtroppo, i peggiori sono uguali a noi. Sono vestiti come noi (spesso meglio). Hanno le nostre stesse facce, il nostro stesso cuore. E sono indistinguibili. Potrebbero passarci davanti in qualsiasi momento.
In tutte le cittadine c’è un posto che mette paura. Un luogo dove i ragazzini si sfidano in prove di coraggio, dove nessuno vuole avvicinarsi, di cui tutti hanno soggezione. A Greenville, il posto è un vecchio canile abbandonato. I ragazzini in questione, in questo caso i cugini Josh e Kevin, non propriamente popolarissimi, anzi un po’ emarginati causa l’obesità di uno e l’asocialità dell’altro, ci si avvicinano, di notte, coi loro skateboard. Ma, a sorpresa, si accorgono che il canile in quelle ore è teatro di uno strano convitto. Di uomini ben vestiti, giunti con macchine lussuose. A far cosa? Di notte, i due ragazzi non osano avvicinarsi di più, anzi fuggono a gambe levate. Ma il giorno dopo, con la luce, quando tutto sembra più razionale, provano a curiosare. Arrivano a entrare nel luogo degli incubi di tutti i ragazzi di Greenville. Col cuore in gola, per provare a essere un po’ più uomini. E, a confermare le loro paure, sentono qualcosa. Trovano qualcosa. Anzi, qualcuno. Ma non è più il tempo di fuggire.
Pietro Gandolfi, già autore di Dead of The Nigth, una raccolta di racconti, si cimenta nel suo primo romanzo. Gran parte dell’impalcatura narrativa poggia le sue basi sulle reazioni di due ragazzini davanti a fatti certamente insoliti, singolari, imprevedibili. E la prima domanda che il lettore si pone è proprio quella: sono comportamenti credibili? Certamente, qualche dubbio c’è. La vicenda, di per sé, incuriosisce, non appassiona. È la linea che i protagonisti seguono che vorrebbe essere il piatto forte, la fonte di riflessioni e di angosce riflesse. La loro analisi introspettiva. Obiettivo interessante, anche se raggiunto solo in parte.
La varietà di vocaboli che l’autore usa non è ampissima, portando a qualche ridondanza. Questo appesantisce lo stile, che già di per sé dà sensazione di aritmicità e risulta un po’ troppo asettico anche quando vorrebbe essere vivacemente descrittivo. Poi, la prospettiva della narrazione. Il romanzo è pensato come racconto “raccontato”, dal protagonista a una terza persona. Artificio inutile. Una visione diretta avrebbe reso più snello l’incedere.
Certamente, il lettore che si appresterà a leggere La ragazza di Greenville non dovrà aspettarsi lirismo, ma potrà esaminare in controluce l’animo adolescenziale di due semiemarginati della provincia americana, o di dovunque.
(Giovanni Cattaneo)